A New York vincono, anzi stravincono Hillary Clinton e Donald Trump. Quest’ultimo si impone per 35 punti sul secondo classificato, il governatore centrista dell’Ohio John Kasich e per oltre 45 punti su Ted Cruz, che dopo un paio di vittorie in stati minori come Colorado e Wyoming, ambiva a posizionarsi come “ragionevole alternativa” all’esuberante miliardario. Invece Cruz, il teocon reazionario del Texas esce da New York senza nemmeno un delegato; ben 90 su 95 finiranno in tasca a Trump che raggiunge quota 847.

Un risultato cruciale per Trump che fra gli elettori repubblicani ha dominato in ogni circoscrizione (salvo Manhattan – nel quartiere dove sorge la Trump Tower è ironicamente prevalso Kasich).

Hillary Clinton invece ha superato Bernie Sanders per 58% a 42%, uno stacco superiore a quello pronosticato dai sondaggi, dominando fra le donne, fra neri e ispanici, fra gli elettori più anziani e stravincendo nelle città: Rochester, Buffalo, Syracuse e tutti i distretti di New York City compreso il quartiere natale di Sanders: Brooklyn, dove Bernie ha galvanizzato grandi folle nei comizi delle scorse settimane.

Ma l’entusiasmo che è andato montando chiaramente non è bastato e per una buona ragione. Le regole delle primarie  del partito democratico sono “carenate” per minimizzare campagne indipendenti e favorire i candidati “istituzionali”.

Nello stato di New York ad esempio la primaria è un elezione “chiusa”, riservata non solo a chi si è ufficialmente registrato come elettore democratico, ma chi lo ha fatto almeno sei mesi fa, a ottobre, quando la candidatura Sanders – allora distaccato nei sondaggi di più di 40 punti – sembrava al massimo una improbabile ipotesi.

I partiti – e i singoli stati  – hanno facoltà di stabilire le proprie regole elettorali. Negli stati che utilizzano i “caucus”, dove è possibile decidere il giorno stesso se iscriversi alle liste democratiche, Sanders ha vinto a ripetizione. A New York invece il sistema ha escluso tutti coloro – molti – che si sono uniti al movimento nelle scorse settimane.

Allo stato attuale Hillary Clinton è in pole position per aggiudicarsi la nomination grazie all’aiuto di un altro cruciale meccanismo per garantire la continuità del partito – i superdelegati. Se infatti Hillary ha un vantaggio di 1413-1145 nei delegati vinti alle urne, dispone anche di 487 ( contro appena 40) superdelegati sostanzialmente assegnatigli da quadri di partito che hanno ogni interesse a bloccare un outsider (perdipiù un senatore indipendente che non ha mai fatto parte dei gruppi democratici in parlamento).

[do action=”citazione”]Entrambi i partiti sono in crisi e affrontano una “insurrezione” popolare contro l’establishment.[/do]

La primaria di New York è stata la chiara dimostrazione che per quello democratico hanno tenuto i meccanismi “di sicurezza”  istituiti dopo le caotiche primarie del 1968 e 1972.

Nel primo caso si giunse alla convention dopo gli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy. Il partito scelse di nominare il delfino di Johnson, Hubert Humphrey, al posto del candidato anti guerra in Vietnam Eugene McCarthy mentre all’esterno Chicago bruciava. Quattro anni dopo le forze “movimentiste” ebbero la meglio sulle correnti tradizionali di partito ma il candidato, George McGovern, perse malamente contro Nixon.

Per poter montare una sfida efficace Sanders dovrebbe quantomeno pareggiare i delegati prima di luglio. Mancando questo risultato sarà molto difficile poter chiedere che vengano rimessi in gioco i superdelegati – i grandi elettori che da soli avrebbero il potere di riaprire la nomination. È probabile invece che dopo il risultato di New York, il partito cominci serrare i ranghi ancora di più dietro a Hillary.

In confronto il partito repubblicano sembra allo sbando, senza una efficace strategia per sbarrare la strada al capolista che paradossalmente non sembra volere nessuno.

Trump potrebbe plausibilmente sfiorare, ma non ottenere, i 1237 delegati necessari, con un distacco comunque imponente su Ted Cruz. Il partito dovrà allora decidere se imporre alla lettera le regole e negargli la nomination oppure tentare di raggiungere un accordo in sede di convention.

In questo contesto i rimanenti stati – gli atlantici (Pennsylvania, Maryland, Rhode Island, Connecticut, Delaware) il 26 aprile, l’Indiana a maggio, una manciata di stati del west e per chiudere i giochi New Jersey e California il 7 giugno – se non una formalità sono ormai solo metà della gara.

[do action=”citazione”]In entrambi i partiti, ma soprattutto nel Gop, la campagna si è già spostata sul fronte interno.[/do]

Da domani si riunisce il congresso del comitato nazionale Gop in Florida per discutere tra l’altro delle regole che governeranno la convention e che diventano ormai cruciali.

Non a caso saranno presenti, a perorare le rispettive cause, i rappresentanti di tutti i candidati, compreso Trump che ancora lunedì  ha nuovamente diffidato il partito dal tentare di “sottrargli la vittoria”.

Bernie Sanders intanto continuerà a raccogliere consensi e a sottolineare una netta demarcazione generazionale nel suo partito e nella politica Usa, che dopo Occupy, dopo Black Lives Matter, prova a trovare una voce progressista unitaria.

Ma la domanda principale potrebbe cominciare a riguardare quale forma potrà prendere la “rivoluzione politica” e il “movimento” di cui Sanders ha gettato le basi .