Lo scandalo si è ripetuto ma gli americani sembrano non accorgersene. Per la seconda volta in appena cinque elezioni presidenziali vince il candidato che ha ricevuto meno voti dai cittadini.

Sì, su scala nazionale, al momento in cui scriviamo, Hillary Clinton ha ottenuto 59,78 milioni di voti e Donald Trump 59,58 milioni. Sono conteggi non definitivi ma i voti provvisori e quelli non ancora contati probabilmente allargheranno la forbice invece di ridurla, quindi il risultato è che i democratici hanno avuto, sia pure di un soffio, la maggioranza.

Come nel 2000 con Al Gore contro George W. Bush. Il presidente, però, sarà Donald Trump, a cui Hillary e Obama hanno già telefonato per congratularsi, come nel 2000 fu per George W. Bush. E sarà Trump perché la tanto ammirata democrazia sulle rive del Potomac funziona ancora con un meccanismo detto del collegio elettorale, per cui il presidente viene eletto non dai cittadini ma da pacchetti di delegati scelti stato per stato e assegnati non su base proporzionale ma con il meccanismo «Winner-Take-All», chi vince prende tutto.

Sembrano minuzie per costituzionalisti, scelte tecniche ininfluenti e invece sono il cuore della democrazia: come assicurare la rappresentanza della volontà popolare.

Negli Stati Uniti questo cuore è malato, e non da oggi. Negli ultimi anni i repubblicani hanno varato decine di leggi per restringere il suffragio elettorale, che resta organizzato stato per stato, allo scopo di limitare le possibilità di successo dei democratici.

Donald Trump sarà il 45mo presidente perché i delegati di ogni stato sono attribuiti solo in maniera approssimativamente proporzionale: gli stati meno popolosi sono sovrarappresentati nel collegio composto di 538 grandi elettori. Per esempio il Wyoming ha parecchi bisonti ma appena 585.000 abitanti, che gli danno diritto a 3 delegati nel collegio elettorale. La California ha 38,8 milioni di abitanti e quindi, se le proporzioni demografiche venissero rispettate dovrebbe avere circa 195 delegati: invece ne ha 55.

La maggioranza di Trump, che sarà attorno ai 306 voti elettorali su 538, è costruita sulla somma di piccoli stati rurali che negli ultimi anni hanno sempre favorito i repubblicani e su una grande fortuna in alcuni stati-chiave come Florida, Pennsylvania, Michigan, dove poche migliaia di suffragi in più hanno fatto pendere la bilancia dalla sua parte.

Il gruppo di stati delle grandi praterie vinti da Trump, con l’eccezione del Colorado dove hanno prevalso i democratici, fanno insieme 57 grandi elettori ma la loro popolazione è molto inferiore a quella della California e i voti che i repubblicani hanno ricevuto sono meno dei cinque milioni e mezzo che la Clinton ha raccolto laggiù.

Nonostante questo, i democratici erano riusciti a vincere nel 2008 e nel 2012 perché avevano un candidato come Obama e perché la loro coalizione urbana (donne, minoranze etniche, bianchi con educazione universitaria) aveva prevalso sulla coalizione rurale e sudista che sosteneva i repubblicani.

Quest’anno l’America profonda, stimolata da un candidato che attizzava le sue paure e incoraggiava i suoi pregiudizi, è andata a votare in massa, conquistando la Florida, il Michigan, il Wisconsin per poche migliaia di voti.

In Michigan, 11.000 voti separano Trump dalla Clinton, su oltre 4,5 milioni di schede scrutinate ma tutti e 16 i grandi elettori andranno a Trump.

In Wisconsin, la differenza tra i due candidati è di 27.000 voti su circa 2.800.000, l’1%, ma tutti i dieci delegati vanno a Trump.

In Florida sono 120.000 i voti repubblicani in più, su circa 9 milioni di votanti: tutti e 29 i delegati nel collegio elettorale vanno a Trump.

Donald Trump ha avuto successo nell’interpretare le paure e le frustrazioni dei maschi bianchi non laureati, che ne hanno apprezzato lo stile retorico brutale e le proposte contro gli immigrati, percepiti come responsabili della stagnazione dei salari e delle difficoltà nel trovare buoni posti di lavoro.

Ha raccolto però anche un consenso che i sondaggi avevano sottovalutato tra la classe media e tra i milionari: ha avuto la maggioranza in tutte le fasce di reddito sopra i 50.000 dollari l’anno, mentre chi guadagna meno di 50.000 dollari ha preferito Hillary.

Molti temevano un risultato deludente della Clinton fra i giovani che avevano sostenuto Bernie Sanders ma non è stato questo, invece, il suo problema: nella fascia d’età 18-29 anni ha raccolto il 55% dei suffragi. La questione è stata piuttosto la distribuzione dei suoi voti: il sostegno degli ispanici, che hanno votato al 65% per lei, le ha fatto ottenere risultati migliori di quelli di Obama in Georgia, in Texas, in Arizona, ma alla fine in tutti questi stati la maggioranza è stata di Trump, i voti democratici avrebbero potuto essere zero e il risultato non sarebbe cambiato.

Gli esperti erano sicuri che quest’anno il gender gap, la tendenza dell’elettorato femminile a votare di preferenza per i democratici, sarebbe stato decisivo, in particolare dopo la diffusione del sonoro di una vecchia conversazione di Trump in cui si vantava di poter fare qualsiasi cosa con le donne grazie al fatto di essere una celebrità. Il divario nei comportamenti di voto c’è stato: tra le donne la Clinton ha ottenuto il 54% contro 42%, ma i grandi media avevano preferito ignorare il rovescio della medaglia e cioè la popolarità che il “macho” Trump avrebbe incontrato tra molti uomini proprio grazie al suo linguaggio fascistoide.

La società americana nel suo complesso non è come appare dalle finestre degli studi televisivi che si affacciano su Madison Avenue a New York: tra gli uomini, Trump ha staccato Hillary 53% contro 41%.

È stata un’elezione traumatica, che avrà conseguenze per decenni.