Alle tre di notte di martedì, (ora italiana) le elezioni presidenziali passeranno per uno dei momenti canonici della campagna. Il confronto diretto fra Hillary Clinton e Donald Trump è il primo di tre dibattiti previsti (un quarto confronto si svolgerà fra i candidati presidenziali Tim Kaine e Mike Pence). È un passaggio obbligato, si diceva, pur se lievemente anacronistico, specie in una campagna che esula come questa da ogni schema, perdipiù in era di saturazione internet e mediatica.

Ma date le pubbliche escandescenze di Donald Trump e la dimensione reality-TV del suo personaggio c’è enorme aspettativa per un contraddittorio che molti prevedono possa somigliare agli incontri di wrestling di cui un tempo Trump era produttore.

I dibattiti sono supremo momento «agonistico» della campagna e giornali lo hanno puntualmente promosso come un incontro di pugilato. Tanto da prevedere a «reti unificate» in prima serata, ascolti record.

Nel «ritiro» democratico – la sua casa di Chappaqua – Hillary Clinton ha passato gli ultimi quatrro giorni a prepararsi con lo staff di consiglieri guidati dal campaign manager John Podesta. Notoriamente meticolosa la Clinton avrebbe ripassato voluminosi dossier su Trump ed esaminato video di suoi precedenti dibattiti. Ieri era previsto il ripasso generale: un dibattito simulato di 90 minuti.

Con un «Trump» interpretato da un consulente incaricato di imitare lo stile del palazzinaro e la sua vocazione agli insulti. I «mock debate» servono a mettere a punto la strategia, il piano di attacco e di difesa di un confronto che si gioca tutto sulle impressioni epidermiche da parte del pubblico con un dogma assoluto: evitare le figuracce. È noto infatti che ogni candidato ha molto più da perdere con un eventuale gaffe che da guadagnare parlando bene.

Clinton in particolare si addenterrà su un terreno potenzialmente minato su cui dovrà cercare di non apparire «imperiosa» o «saccente» ne perdere le staffe per i prevedibili oltraggi di cui la farà oggetto Trump, guardarsi insomma dagli stereotipi della «donna altera». La sua missione non è tanto sbugiardare un avversario che delle falsità ha fatto un cavallo di battaglia, ma di apparire presidenziale e a suo agio. La candidata non dispone del carisma naturale del marito ma allo stesso tempo ha tenuto bene testa all’agguerrita commissione su Benghasi che l’autunno scorso l’ha torchiata per ben 11 ore e qualche giorno fa è stata soprendentemente efficace ed autoironica come ospite del web-talk show situazionista del comico Zack Galifianakis.

Da canto suo Trump ha fatto pubblicamente sfoggio di non aver bisogno di grandi preparazioni contando ufficialmente sugli «istinti di negoziatore» che ama presentare come sue principali credenziali. E in fondo le sue astruse performance nelle primarie non si può dire non abbiano, a modo loro sortito l’effetto desiderato.

Certo la posta ora è più alta e in un faccia a faccia di un ora mezzo una strategia basata su insulti, slogan e broncio potrebbe finire per risultare controproducente. La verità è che anche il team repubblicano è stato al lavoro per affinare il piano anti-Hillary sotto la tutela di Roger Ailes, padre padrone della Fox fino a questa estate quando è stato costretto alle dimissioni dopo una serie di denunce per molestie sessuali da parte di anchorwoman dell’emittente.

Cresciuto alla corte di Nixon e dei suoi «sporchi trucchi», con la Fox Ailes ha inventato la quinta colonna del partito repubblicano e del moderno neoconservatorismo, una emittente che definisce l’agenda della destra più dello stesso partito, imprimendole negli ultimi dieci anni la piega paranoico-populista espressa da trumpismo. È dunque improbabile che sia Ailes a consigliare a Trump di moderare i toni delle esternazioni nazional-populiste. È pur vero che la mancanza di logica e raziocinio non ha finora visibilmente nuociuto a Trump e potrebbe anzi averlo avvantaggiato con la base.

I fatti e le ragioni d’altronde sono notoriamente l’ultima delle considerazioni in questi dibattiti. Quello di domani si terrà nel 56mo anniversario esatto del primo dibattito teletrasmesso: Kennedy contro Nixon nel 1960, ovvero quello passato nei libri di testo come atto fondativo della meta-comunicazione di massa. Allora un Nixon preparato ma sudato e visibilmente disagio perse malamente contro un Kennedy rilassato e telegenico.

È lo sfuggente risultato che entrambi candidati cercheranno di duplicare: suscitare simpatia, il bene più prezioso e aleatorio delle campagne «post-politiche». Sicuramente in questa in cui si tratta soprattutto di diminuire l’astio di un elettorato che nutre un forte sentimento contrario dichiarando antipatia per entrambi – 56% per Hillary, 61% Trump.