Da alcuni anni è esplosa la moda del coach e sento sempre più persone che, quando gli chiedi che fanno nella vita, rispondono: «L’impiegato, ma anche il coach. L’infermiere e insieme il coach. Il parrucchiere e come secondo lavoro il coach». Se un tempo il coach era in sostanza l’allenatore di una squadra, dagli anni Settanta ha cominciato a entrare nelle aziende e lì sono comparsi gli executive, team, leadership coach, figure che, secondo la classificazione ICF, «attraverso un processo creativo stimolano la riflessione, spingendo i clienti a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale». In altre parole, insegnano strategie per tirare fuori il meglio di sé e dalle situazioni. Da lì il coaching si è allargato alla sfera privata e così sono spuntati i life, health, relationship, parent coach, gente che dovrebbe insegnare ad altra gente strategie per vivere meglio, stabilire relazioni costruttive con i colleghi, i figli, i coniugi, gli amici e se stessi. Premesso che nutro un’istintiva diffidenza verso chi, con tre anni di corso, si ritiene in grado di dare indirizzi esistenziali e comportamentali agli altri, parlare con qualcuno di loro apre visioni interessanti su come va il mondo.

Pochi giorni fa, una coach mi ha raccontato che cosa fa nello specifico. Il suo lavoro a tempo pieno è in una sede italiana della più importante banca tedesca. Lei, che ama il suo mestiere ma vorrebbe aprirsi alternative per il futuro, due anni fa si è iscritta a un corso di coach, la voce si è sparsa in ufficio e ora ha già un po’ di clienti a cui dà consigli gratis in attesa di terminare gli studi. Chi le chiede più aiuto sono le sue colleghe che vanno tutte, ma proprio tutte, da lei non per imparare a fare carriera, ma per apprendere l’esatto contrario, ovvero come non farsi schiacciare la vita e i pensieri dai rospi che devono ingoiare sul lavoro. «Tutte – racconta la mia informatrice – mi dicono la stessa cosa, e cioè che amano il loro lavoro e che sanno di essere brave perché hanno studiato, si sono specializzate, sono precise, efficienti. Quello che non sopportano è che nessuno dei capi, tutti maschi fra l’altro, se ne accorga e lo apprezzi. Insomma, vorrebbero essere considerate di più». E da lei che aiuto cercano? «Posto che è quasi impossibile cambiare la situazione, io insegno loro a trovare il modo per smettere di prendersela e rimuginare, destinando le energie a qualcosa di costruttivo. Poi ci sono i casi più impegnativi»[. Per esempio? «Beh, come quella collega che stava malissimo perché si rifiutava di vendere ai clienti titoli spazzatura e per questo era stata messa da parte.

Alla fine non ha resistito e se ne è andata». E gli uomini non le domandano nessun aiuto? «Sì, ma riguardano solo la sfera personale, in sostanza vogliono avere consigli sulla relazione di coppia». Tutto ciò mi spinge a fare alcune considerazioni. N.1. Riguardo al lavoro, le donne sollevano problemi diversi da quelli dei colleghi maschi. N. 2. I coach tentano di dare risposte a bisogni che altri non ascoltano. N. 3. I coach convogliano in un rapporto di sostegno a due quello che un tempo sarebbe diventato lotta di classe o di categoria. N. 4. I coach forniscono ascolto e strumenti di resistenza, o resilienza, che alla fine tengono a bada il conflitto interiore. N. 5. Il conflitto interiore è la premessa per il conflitto in generale. N. 6. Se si elimina l’idea di conflitto, si rischia di creare una società di palle di gomma immerse in una palude dove il tiro, che già parte debole, quando arriva non ha alcun effetto. Come dire: vai pure, tanto non dai fastidio a nessuno.

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