Attenzione, cos’è successo, ho paura, è scoppiata una bomba, sono morti tutti, sono l’unica superstite al mondo… Il sole splende alto, gli uccellini trillano, l’aria è pulita, lo schermo del telefono dice che sono le otto e trenta e qui da me, nella Casa Affollata, non c’è anima viva. Da non crederci. Mentre faccio colazione sfoglio il programma per la prima volta nella giornata ma non ultima (forse è il gesto che compio più volte durante le ventiquattro ore, talvolta in maniera inconscia) e all’ultima pagina, quella con una grammatura più spessa, dove stanno le pubblicità- sponsor, accanto ad una vettura grigio platino scintillante mi sembra di riconoscere il direttore del festival di Venezia, Alberto Barbera. Tutte le restanti pagine ricadono a cascata sull’immagine, le riporto indietro e scopro Kevin Spacey. Sarà la figura asciutta, sarà l’attaccatura di capelli, sarà l’aplomb del passo ma mi era sembrato… No, ho capito cosa mi stordisce: trovarmi tra quattro mura da sola dopo quasi quattro giorni.

La bomba di ieri (scandaletti da mezzecalzette di cui sono protettrice e fautrice): la scena del film brasiliano nella sezione Orizzonti, Boi Neon (regia di Gabriel Mascaro) in cui Iremar (Juliano Cazarré), mandriano di bell’aspetto, fa all’amore con una bella venditrice porta a porta (in questo caso fattoria a fattoria o stalla a stalla) di profumi di giorno, di notte sorvegliante: si accoppiano sul tavolo dove si tagliano le stoffe in una fabbrica di vestiti. Cosa ci sarebbe di male? Lei è incinta di sei-sette mesi. Girata in campo medio, un totalino su tavolo e corpi nudi, piano sequenza in tempo reale di baci iniziali, crescendo di passione, spogliamenti, pisello eretto tirato fuori alla cerniera, scoperta di un seno procace e turgido di gestante, ventre rotondo e teso (che sarebbe impossibile da tenere addosso, se finto, così svestita).

Il tutto è talmente reale da trasformare gli spettatori in imbarazzati-eccitati voyeur. È la penultima scena di tutto il film. Sui titoli di coda, nel buio, uno degli imbarazzati: «che merda». Mi dispiaccio per il regista in sala, a cui spero non traducano (anche se il tono era inequivocabile). Si accendono le luci. Incontro un’addetta ai lavori incinta, stessa panzetta dell’attrice sullo schermo. Le chiedo se secondo lei era veramente gravida, mi dice che ha notato addirittura che il bambino nella pancia si muoveva: sarà stato perché si divertiva o era un segno di protesta perché non riconosceva nel perlustratore-invasore il padre? Chissà.
Qui dicono ogni giorno che domani piove e poi non piove mai (si, lo so, ora che l’ho detto, è fatta, la perturbazione incombe già sulla mia testa, ma non sono riuscita a trattenermi). Ogni mattina si pensa ad un abbigliamento adatto a coprire almeno le 14/16 ore successive: scarpe comode per i chilometri di lungolido che si marciano anda e rianda, maglioncino e foulard per la sala (qualunque essa sia) dove con l’aria condizionata a palla congeli come un liuk dallo stecco di liquirizia, maglietta a maniche corte se non addirittura canotta perché al sole si schiatta e l’umidità è a mille, signora mia. Finalmente, per la prima mattina, con mia ampia soddisfazione (più mentale che fisica) riuscirò a farmi la doccia appena dopo colazione. Sappiatemi pulita e profumata. Olè!