La pace bocciata dalle urne. Al referendum sul conflitto armato in Colombia, ha vinto il partito della guerra. Il No agli accordi di pace si è imposto per pochi voti: 50,22% contro 49,78%. Altissima l’astensione, pari al 63%. Un risultato a sorpresa, che smentisce tutti i pronostici, pronti a scommettere su un’ampia vittoria del Si. La parola torna alle armi?

Dall’Avana, le Farc hanno ribadito la loro volontà di mantenere gli impegni presi, realizzati a Cuba e sottoscritti dalle parti a Cartagena. Un risultato ottenuto dopo 4 anni di trattative ufficiali e altrettanti di colloqui esplorativi, iniziati per iniziativa dell’allora presidente venezuelano Hugo Chavez e con la mediazione dell’ex senatrice colombiana Piedad Cordoba. Santos ha promesso di mantenere il cessate il fuoco bilaterale e si è detto pronto a cercare altre strade per applicare gli accordi realizzati all’Avana e sottoscritti nella cerimonia di Cartagena.

Il governo non aveva l’obbligo di convocare il referendum e di sottoporre al voto di un sistema politico chiuso e corrotto il futuro del paese. E torna ad affacciarsi la proposta di un’assemblea costituente, avanzata dalle Farc all’Avana. Ma il peso delle destre si è fatto sentire, annunciato dai cacciabombardieri che si sono levati in volo sulla cerimonia di Cartagena mentre Timoshenko pronunciava il suo discorso. E torna il ricordo dell’Union Patriotica, l’esperienza di partecipazione politica delle Farc, stroncata con un massacro dalle forze governative e paramilitari negli anni ’80. Sul piatto, ora, c’è il rilancio al ribasso dei sette punti dell’accordo, in primo luogo la riforma agraria, la partecipazione della guerriglia alla vita politica e la questione dei prigionieri. Uribe, che ha concluso patti segreti con il paramilitarismo per garantirgli l’impunità, vorrebbe imporre ben altro trattamento ai guerriglieri.

Abbiamo commentato i risultati del referendum con il ricercatore colombiano Julio Madera, reponsabile del settore Sicurezza e Difesa nel Centro de Investigacion y estudio fronterizos (Cief).Militante dell’Asociacion Colombiana des Estudiantes Universitarios e de la Federacion de Estudiantes Universitarios, Madera ha dovuto lasciare il paese per “aver espresso idee contrarie al governo e per aver partecipato alle lotte del movimento studentesco, contadino e operaio”. In Venezuela – paese che ospita oltre 7.000 colombiani, in gran parte in fuga dalla guerra – ha ottenuto lo status di rifugiato e ha partecipato ai dialoghi dell’Avana nel tavolo sui Diritti umani.

Qual è il lavoro del Cief?
Il nostro è un centro di ricerche sociali che indaga la realtà del territorio alla frontiera tra Colombia e Venezuela, ma che è impegnato anche nella lotta popolare. Portiamo idee alla costruzione di politiche pubbliche per il territorio frontaliero, ma anche alla resistenza e alla difesa di quegli stessi territori, minacciati dalla voracità del capitale. Assumiamo una prospettiva critica, che coinvolge direttamente gli abitanti nell’analisi delle dinamiche sociali, economiche, politiche sui temi come Politiche pubbliche frontaliere, economia di frontiera, sicurezza e difesa, mobilità umana, megaprogetti, sfruttamento delle risorse e resistenza…

Quali sono i dati che avete raccolto sul conflitto armato?
Quelli di frontiera sono fra i territori più colpiti dal conflitto armato perché in questa fase del capitalismo c’è una ridefinizione del territorio in generale e in particolare del territorio frontaliero all’insegna dello sfruttamento delle risorse e della captazione illegale della rendita petrolifera. La frontiera ha alcune caratteristiche che la rendono attrattiva per l’accumulazione di capitali legali e illegali. A questo si aggiunge il fatto di essere zona di sfruttamento minerario energetico e zona propizia per il contrabbando illegale di ogni tipo di prodotti, a partire dai narcotici. Dal lato colombiano, questo sfruttamento si basa sull’esercizio di sterminio e esproprio violento attraverso l’impiego di paramilitari, mercenari e mafie di ogni tipo al soldo delle grandi multinazionali interessate all’accumulazione di capitale su scala transnazionale. A questo si deve aggiungere che i conflitti armati di ogni tipo influiscono sulla frontiera, poiché l’inasprimento dei conflitti interni tende a spostarsi alla frontiera. Se analizziamo le cifre delle vittime in Colombia da parte del paramilitarismo, le zone più colpite sono Antioquia, Santander, Nord di Santander e Cesar. Non è un caso che di questi 4 dipartimenti, 2 sono dipartimenti di frontiera (Nord di Santander e Cesar) e gli altri due delimitano dipartimenti di frontiera (Antioquia e Santander). Solo tra il 1982 e il 2012, gli anni di maggior intensità degli attacchi paramilitari, alla frontiera si contano 1.586 vittime. E neppure è casuale che i grandi blocchi del paramilitarismo in Colombia si siano creati nelle zone di frontiera con il Venezuela nel 1999, l’anno in cui Chavez vince la presidenza e inizia il suo processo di trasformazioni sociali in favore del popolo venezuelano.

Come valuta il voto di frontiera al referendum e quello dei colombiani all’estero?
Al referendum per la pace si è imposto il No agli accordi con il 50,22 % contro un 49,78 % del Si. Una differenza minima, che tuttavia può pregiudicare il processo di pace che si era messo in marcia. Se però analizziamo i risultati alla luce delle cifre dell’impatto del conflitto sociale e armato sugli abitanti della frontiera che furono vittime del terrore paramilitare, ci accorgiamo che c’è un appello esplicito alla pace da parte di questi territori. Questi territori, che oltre a essere periferici sono rurali hanno votato Si agli accordi. Su 8 dipartimenti di frontiera con il Venezuela, in 6 ha vinto il Si. Questo si spiega perché questi territori sono stati i più colpiti dalla violenza del conflitto sociale e armato. Lo stesso di può dire per il voto a livello nazionale. Complessivamente, il Si ha vinto nei dipartimenti periferici e rurali, quelli in cui la gente ha sofferto la guerra sulla propria pelle. E il No ha vinto nei centri urbani, ossia nel centro del paese, dove gli echi della guerra arrivano attraverso la televisione e in cui l’opinione pubblica è mediata dai mezzi di comunicazione e dalle reti sociali. Sono questi grandi centri urbani che hanno votato No, alimentando la proporzione a scapito dei territori rurali e periferici. Possiamo dire tristemente che una gran parte della popolazione urbana, che non ha sofferto le conseguenze più brutali della guerra ha imposto col suo voto la guerra all’altra parte della popolazione, una popolazione rurale che storicamente è stata la più colpita dal conflitto sociale e armato che sta minando la pace. Il voto dei colombiani all’estero è stato in maggioranza a favore del Si, con un 54,13%, contro un 45,86% per il No, che si è imposto solo negli Stati uniti, negli Emirati arabi e in Paraguay. Nel resto del mondo i colombiani hanno votato per il Si, e questo è comprensibile, poiché la maggior parte di chi si trova all’estero è stata espulsa dal territorio dalle logiche del potere e dall’espansione del potere economico. Per molti, la vittoria del referendum avrebbe significato la possibilità di tornare in Colombia in sicurezza.

Quali sono a suo avviso le ragioni della sconfitta e le responsabilità dello Stato? Perché Santos ha voluto a tutti i costi il referendum contro il parere delle Farc e dei movimenti sociali?
In primo luogo occorre dire che c’erano gli strumenti giuridici nazionali e internazionali per farlo. Tutta una legislazione del diritto internazionale umanitario, i protocolli di Ginevra e la stessa costituzione colombiana avrebbero permesso l’applicazione degli accordi di pace senza necessità di convocare un referendum, perché la pace come bene supremo e come diritto è una responsabilità del governo. Santos avrebbe potuto applicare gli accordi senza ricorrere al referendum ma ha messo a rischio anni di lavoro e discussioni con le Farc e con diverse organizzazioni sociali all’Avana e prima: condizionandoli alle logiche elettorali che da sempre sono manipolate dai media e dalle dinamiche mafiose, in molti casi dell’uribismo, che ha mobilitato tutta la sua macchina elettorale. Col referendum, Santos si è legittimato di fronte ai suoi elettori, ma anche con quelli dell’uribismo, contando sull’aspetto che più interessava realizzare all’establishment: il disarmo delle Farc. In ogni caso, Santos avrebbe vinto sia in caso di affermazione del Si, sia in caso contrario. Il suo impegno principale è quello di mantenere l’establishment, in quanto rappresentante di una delle famiglie più potenti del paese, e questo apparato risulta rafforzato con un referendum in cui dimostra il suo presunto talento “democratico” che gli evita di aplicare gli altri punti dell’accordo. Il suo impegno con i poteri economici colombiani e con il capitale transnazionale restano così garantiti mentre le Farc restano al palo e in via di smobilitazione. A ben vedere, nonostante i circoli di Santos abbiano promosso la campagna per il Si, non tutti i settori politici governativi dell’unità nazionale si sono impegnati appieno nella campagna come invece fanno quando sono in gioco i loro veri interessi. Né il Partido Liberal, né il Partido Conservador, né il Partido Verde, né il Polo Democrático hanno fatto campagna per il Si, così come fanno per le loro candidature e i loro interessi. Al contrario, il Centro Democrático – il partito di Uribe – ha assunto come propria la campagna per il No, ne ha fatto la sua bandiera. Inoltre, in base ai dati a cui accennavo prima, nei grandi centri urbani andini, del centro del paese (esclusa Bogotà) gli uribisti hanno imposto la loro visione del conflitto sociale e armato. La mappa del voto mostra come nei territori rurali, emarginati, periferici e vittime del conflitto armato si è imposto il Si agli accordi di pace. Al contrario, nel centro del paese, principalmente Antioquia, tutta la zona cafetera, Cundinamarca e i Santanderes, che sono zone in cui si è insediata la cultura mafiosa, e che più sono influenzate dai mass media e dalle reti sociali, si è votato No.

E che può accadere adesso?
La sconfitta del Si apre un nuovo scenario politico in cui le forze nemiche della pace acquistano più forza. Tuttavia, anni di dibattiti, di lavoro, di partecipazione delle diverse forze sociali e di un appoggio costante dei paesi garanti e accompagnanti non possono andare perduti per un No ottenuto con un margine così stretto di vantaggio. Gli accordi sono pronti, firmati e riconosciuti dall’Onu e da diversi organismi internazionali. Le Farc li hanno ratificati nella loro Decima conferenza e nel loro intervento sui risultati del referendum hanno riaffermato la decisione di continuare a fare la loro parte negli accordi. Come diciamo in Colombia, “ora la pace sta nel campo del governo Santos”. Il compito di Santos sarà quello di trovare una soluzione politica, i meccanismi giuridici perché questi accordi si possano realizzare. Nel suo intervento in televisione a commento dei risultati, ha ribadito la volontà di trovare una via d’uscita, e intanto di mantenere il cessate il fuoco bilaterale e ha ricordato la facoltà del presidente di far applicare i sette punti dell’accordo che implicano la ricerca della pace con giustizia sociale. Come forze sociali e politiche che hanno lottato per gli accordi di pace dobbiamo mantenere l’unità, la mobilitazione e la lotta per difendere tutti i punti dell’accordo negoziati nei tavoli dell’Avana dal 2012, perché implicano il benessere sociale, politico ed economico della gran maggioranza del popolo colombiano.