La morale è sempre la stessa: a pagare sono sempre – e solo – i lavoratori. Sfruttando il Jobs act.

Whirlpool, Auchan, Franco Tosi. Le crisi aziendali post riforma hanno nomi diversi da quelle affrontate negli anni scorsi. E – soprattutto – logiche differenti.

Nel primo caso si tratta di un leader mondiale degli elettrodomestici che annuncia esuberi dopo aver comprato un marchio (italiano) concorrente. E già questo è illogico. Ma risulta odioso andando a leggere i risultati sbandierati al mondo intero proprio ieri. Il primo trimestre 2015 per il gruppo del Michigan si è chiuso con un utile netto di 191 milioni di dollari, in crescita rispetto ai 160 milioni dello scorso anno (+18,8 per cento) e con ricavi record a 4,8 miliardi (+11 per cento). Il numero uno del gruppo Jeff M. Fettig ha poi spiegato che il calo del cambio euro-dollaro non ha creato problemi proprio per «i nostri piani di integrazione in Europa e in Cina», con l’Europa a fare la parte del leone nelle vendite: con 5,7 milioni di pezzi ha più che raddoppiato rispetto allo scorso anno portando l’utile operativo da 7 a 17 milioni di euro.

Ma ai tempi del Jobs act la globalizzazione – ieri Marchionne ed Elkann hanno inaugurato la nuova Mirafiori (9mila posti di lavoro a Goioana, in Brasile) diventa una scusa per annunciare accorpamenti – come quello fra gli stabilimenti storici di Indesit versione Merloni di Melano ed Albacina, vicino a Fabriano – e spostamenti di produzioni – i frigoriferi di Carinaro (Caserta) saranno prodotti a Cassineta (Varese).

Oggi si terrà il primo incontro della trattativa. Si spera che il «non abbiamo pregiudizi», pronunciato dall’ad europeo Davide Castiglioni, porti a cambiare un piano industriale per tutte queste ragioni «inaccettabile» dai sindacati.

Ragioni ancora più paradossali sono quelle addotte dal gigante della grande distribuzione, la francese Auchan, per annunciare ben 1.426 esuberi su un totale di 12.873 lavoratori sui 57 ipermercati che ha in Italia. Prima tra le motivazioni dei licenziamenti – e una di quelle addotte per le perdite nei bilanci di Auchan Italia che ha sede a Bergamo – è «la concorrenza sleale».

Secondo Auchan, soprattutto al Sud – zona dove erano inizialmente concentrati gli esuberi – molti concorrenti non applicano ai propri lavoratori i contratti nazionali del commercio oppure applicano contratti part-time mentre il personale lavora full-time.

Ebbene, il problema sarebbe facilmente risolvibile: basterebbero i controlli degli ispettori del ministero del Lavoro a sanare la situazione e ristabilire il rispetto dei contratti per i lavoratori, un equo costo del lavoro per tutti e la concorrenza nel mercato. Peccato che proprio la riforma del lavoro faciliti i licenziamenti ma riduca fatalmente ispettori e controlli con la ormai mitica Agenzia unica, il cui decreto deve ancora arrivare mentre nel frattempo gli ispettori vivono nel limbo della incertezza totale sul loro futuro.

Anche qui i sindacati hanno annunciato una mobilitazione forte: assemblee e sciopero per il 9 maggio. Ma contro il Jobs act sembrano tutte armi spuntate.

L’ultimo caso riguarda una fabbrica metalmeccanica. Si tratta della Franco Tosi, storico marchio di Legnano, finito in stato di insolvenza dal luglio 2013 dopo una lunga crisi. Lunedì i lavoratori hanno votato il referendum per approvare il passaggio alla Bruno Presezzi. L’accordo sindacale sottoscritto solo da Fim Cisl e Uilm prevedeva solo 170 riassunzioni sui 346 addetti totali. E per di più con il contratto a tutele crescenti e quindi senza l’articolo 18. I lavoratori hanno bocciato l’accordo (122 voti contrari, 97 a favore, un astenuto) e subito tutta la stampa ha accusato la Fiom (contraria all’accordo) di non volere le nuove assunzioni.

«Ma qua siamo già al di là del Jobs act, siamo al Jobs act ad personam – spiega il segretario della Fiom Lombardia Mirco Rota – . La Franco Tosi è in amministrazione straordinaria e quindi per la legge Prodi dovrebbe esserci la continuità aziendale per tutti i lavoratori. In questo caso invece l’accordo firmato dagli altri sindacati è in deroga e prevede che almeno il 90 per cento dei lavoratori riassunti firmino le liberatorie personali in cui accettano le nuove regole contrattuali e si impegnano a non fare causa». Ma questo nemmeno il Jobs act lo può evitare. Almeno per ora.