Anni fa mi colpì il racconto di Salvatore Veca «L’ascia del nonno». Un vecchio signore mostrava a tutti i suoi ospiti che andavano a fargli visita, l’ascia che il proprio nonno aveva usato in passato. Era conservata gelosamente sotto una teca di vetro. «Vedete», spiegava il vecchio signore, «questa era l’ascia di mio nonno. La lama in ferro naturalmente è stata sostituita con una nuova lama perché corrosa dalla ruggine. E il manico dei legno è stato anch’esso sostituito perché roso dai tarli». Dunque, si chiedeva Salvatore Veca, «cosa è quell’ascia conservata?». Ebbene, la ricostruzione (speriamo che inizi quanto prima) dei paesi devastati dal sisma dovrebbe evitare che i nuovi paesi diventino come l’ascia del nonno ricostruita, cioè una semplice riesumazione del “vecchio” che non c’è più.

C’è un legame indissolubile tra comunità e luogo: non può esistere comunità senza luogo né tantomeno un luogo che è stato privato della sua comunità. Sarebbe bastata questa semplice considerazione a decretare il fallimento delle new town berlusconiane, ovvero di quei non-luoghi per non-comunità. Come evitare che la “ricostruzione” dei due vecchi paesi (Amatrice e Accumuli) non ripercorra questa strada fallimentare?

Tanti anni fa, erano gli anni Cinquanta, a seguito del libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, fu realizzata una delle più interessanti esperienze urbanistiche con la creazione del villaggio La Martella per tentare di risolvere l’annosa, e scandalosa, questione dei “Sassi” di Matera. Esso coinvolse una straordinaria schiera di architetti, urbanisti, antropologi, psicologi e perfino psichiatri, tra i quali figurava anche Adriano Olivetti. Considerate le pessime condizioni igienico-sanitarie in cui vivevano, gli abitanti dei “Sassi”, essi furono mandati, con tutto il loro carico di storia millenaria, a vivere in questo piccolo villaggio rurale appena fuori Matera, progettato con un atteggiamento di massimo rispetto del patrimonio culturale degli abitanti e della loro comunità contadina.

Queste attenzioni (perfino nei dettagli architettonici e nei materiali di costruzioni), non furono sufficienti a realizzare completamente l’obiettivo di ricostituire la comunità originale: alcuni abitanti si rifiutarono di andarci, altri, qualche tempo dopo, tornarono ad occupare i “Sassi”, altri ancora andarono a vivere altrove.
Potremmo dire oggi che il “fallimento” (metto tra virgolette poiché fu comunque un’impresa straordinaria dal punto di vista culturale) scontava il prezzo di fare riferimento a standard e modelli di vita totalmente “incomprensibili” agli abitanti dei “Sassi” che, nel tempo, si erano adattati al loro rapporto con la natura rappresentata dagli stessi “Sassi” e dalle opportunità che essi offrivano (comprese le cattive condizioni igieniche).

Tutto questo per dire che ricostruire i luoghi fisici (piazze, campanili, chiese, strade e manufatti abitativi) è un conto, ricostituire la comunità dispersa è un altro e di assai più difficile soluzione. Questa sfida può però essere affrontata con una prospettiva diversa. La “ricostruzione” può allora diventare l’opportunità di insediare una “nuova” comunità pur formata in gran parte dagli stessi abitanti che, pur non rinunciando al proprio patrimonio passato (tradizioni, memoria, usi e costumi) si proietti in una dimensione futura evitando di diventare un esempio di modernità di cartapesta.

Costituire, ad esempio, un insediamento ecologico in armonia con il territorio e la natura, un esempio virtuoso di ritrovato equilibrio con i problemi che affliggono il nostro Appennino. Potrebbe costituire uno dei primi esempi di pianificazione non condizionato da esigenze speculative e con l’obiettivo di riavviare i processi di riqualificazione delle cosiddette “aree interne”.

In primis, nel progetto di ricostruzione dovrebbero entrare tutte le storie raccontate dai vecchi abitanti, le consuetudini locali, le attività produttive piccole e grandi che costituivano l’economia del paese, nuove economie inerenti il recupero e l’applicazione di norme sismiche. Servirebbero poi studi geologici rigorosi per scegliere i siti edificabili e scartare le aree più a rischio; realizzare spazi pubblici, piazze, limitare le privatizzazioni di suolo, progettare luoghi che favoriscano le produzione di socialità e convivialità, evitare, come è successo a L’Aquila, la militarizzazione del territorio, favorire dovunque l’incontro, la bellezza, il dialogo, la narrazione delle storie.

L’emergenza non deve essere cattiva consigliera. E quella straordinaria sapienza acquisita da tutti coloro che si stanno prodigando (volontari e non) per salvare vite e cose, dovrebbe anch’essa confluire nel progetto di ricostruzione. Guai, insomma, se a decidere come e dove ricostruire fosse una ristretta élites di tecnici preoccupati solo di collaudare qualche straordinaria invenzione tecnologica dell’ultimo grido o, peggio, qualche esempio di smart cities dopo il disastro delle new town.

Dobbiamo, al contrario, tenere insieme il sapere virtuoso dei vecchi abitanti con l’esperienza di tecnici qualificati, con le esigenze dei sistemi ecologici di supporto alla vita, con l’uso delle risorse locali, con l’accoglienza dei migranti che potrebbero contribuire alla formazione di una nuova, rinnovata e più moderna comunità urbana che, mai, per usare le parole di Erri De Luca, «dovrebbe insuperbirsi di nessun possesso».

Già a breve, passata la fase dei soccorsi, gli abitanti potrebbero ridiventare protagonisti delle loro storie partecipando al progetto di ricostruzione insieme al personale organizzato dal governo: non li escludete, altrimenti ricostruireste un paese fantasma: l’ascia del nonno, appunto.