Che c’è una differenza tra gli uomini e le donne lo sanno tutti. Lo hanno ribadito le femministe a gran voce dagli anni Sessanta Settanta, è evidente in ogni azione, riflessione, creazione umana. E questo è il bello del mondo, forse, il rispecchiarsi, confrontarsi, scoprirsi nelle differenze. Di certo su un tema forte come la gestione del dolore, siamo diametralmente opposti: come reagisce un essere umano di genere maschile di fronte a un lutto? E al peggiore dei lutti, la perdita di un figlio? E, sempre più in basso, quando se ne è in parte colpevoli?

In questi giorni frequento oziosamente, senza continuità, facendo finta di niente, il Festival del Cinema di Roma, che ancora non ho capito se si chiama festival o festa e perché questa nomenclatura cambia di anno in anno (se cambia). È cosa complicata entrare nella mentalità da festival (un film di seguito all’altro) quando vivi nella città in cui ha luogo e hai da andare a prendere il figlio a scuola (dopo avercelo portato), fargli fare i compiti, gestire pasti e orari e attività extra-scolastiche: coordinare il quotidiano e lo straordinario facendo costantemente il gioco delle tre carte (in cui, modestia a parte, ho una laurea ad honorem). Ma insomma, qualche immagine vista sul grande schermo mi stimola riflessioni e questo è comunque già qualcosa. Manchester by the sea di Kenneth Lonergan (di cui amai, nel 2000, l’opera prima You can count on me, film rivelazione dell’attore Mark Ruffalo) affronta le vicende di Lee Chandler – operaio tuttofare con giganteschi scheletri nell’armadio – che diventa, alla morte del fratello, unico tutore del nipote Patrick. La cosa più riuscita, a mio avviso, è il punto di vista prettamente maschile: come sopravvive un uomo disperato?

Il regista sceglie di approfondire i silenzi, la degradazione trovata nell’alcol e nelle risse, l’auto punizione infilittasi ogni giorno dal protagonista, conscio di non poter mai espiare le sue colpe in vita.

Nessun approccio religioso, nessun miraggio di salvezza, nessuna richiesta di aiuto: solo ed esclusivamente un baratro che diventa sempre più profondo, sabbia mobile, pianta carnivora che lo calamita sempre più giù, nonostante il nipote adolescente richieda attenzioni e cure. Il sentimentalismo è bandito, non è cosa da uomini, non porta con sé coraggio né forza né superamento. Le figure femminili, per antonomasia portatrici di vita, trovano conforto e riscatto in nuove relazioni, in altre procreazioni, in devozioni estreme: all’apparenza hanno un percorso più semplice, più basilarmente dinamico. Il protagonista invece si affossa, si ripiega: le sue labbra non si concedono la morbidezza di un sorriso, nulla gli è concesso, non una chiacchiera, non un’avventura, non un abbraccio.

Ha perso tutto, per sua colpa, vuole scontare la sua pena per sempre. Una intransigenza lesionista senza pari avvolge ogni fotogramma regalando empatia e suscitando compassione in chi guarda. L’abisso di Lee potrebbe cogliere ognuno di noi, uomini o donne che siamo. All’uscita di un film imperfetto, ma denso, sotto i miei occhi umidi, ad un attraversamento delle stradine tutte uguali del Villaggio Olimpico, un Suv quasi investe una bambina di tre anni a cui è caduto un giocattolino per terra e, chinata a raccoglierlo, non è stata vista. Urla la madre, urlo io, urliamo in molti per bloccare il guidatore. Pericolo scampato. La notte poi succede una cosa ormai rara: mio figlio si presenta a dormire nel lettone alle cinque di mattina per un brutto sogno. La meraviglia della genitorialità intrecciata al non chiudere più occhio stavolta mi sembrano esperienze bellissime.

fabiana sargentini@alice.it