Certo, c’è anche il parlamentare del Partito liberale conservatore che, dalle colonne di un quotidiano dell’Australia – ancora virtualmente governata dalla Regina Elisabetta – plaude alla Brexit, orgoglio che par d’altri tempi e ispirato a un passato coloniale cui forse nemmeno nel Regno Unito si sognano di pensare. E forse c’è anche qualche indiano ottuagenario dell’11mo Sikh Regiment della British Indian Army – nato negli anni Venti – che prende la pensione da Londra e pensa che la vecchia Inghilterra abbia fatto bene. Ma son voci fuori dal coro in un panorama che abbraccia il vecchio mondo coloniale britannico che si riconosce nel Commonwealth – che raccoglie 53 nazioni e 2,2 miliardi persone – il cui cuore pulsa soprattutto in Asia, fino a lambire il Quinto continente.

Sarà perché sei abitanti su dieci del Commonwealth hanno meno di trent’anni, sarà perché il mondo è davvero cambiato – l’ultima bandiera adottata a Ottawa nel 1976 non ha più l’Union Jack – a plaudire alla Brexit son davvero pochini. Il resto son toni allarmati e solo in parte per l’economia. A volo d’uccello par di capire che la preoccupazione maggiore sia la piega nazional populista e isolazionista che non piace soprattutto nei Paesi di tradizionale immigrazione, come India o Pakistan, ma che fa storcer bocca e naso anche a intellettuali australiani o canadesi.

Scrive Michael Pascoe, editorialista economico di Business Day, inserto economico del Sidney Mornig Herald: «In realtà non me la prendo con la Gran Bretagna. Non è un gran danno per l’Australia e vale solo un paio di punti percentuali delle nostre esportazioni. Se i Poms (nickname per britannici ndr) si vogliono sparare sui piedi ritirandosi da un potente blocco commerciale, non mi interessa. Mi preoccupa invece la meschinità isolazionista che sembra aver guidato Brexit; la contrazione di cuori e menti di quella che fu una grande nazione rivolta verso l’esterno. Il pericolo, come molti hanno commentato, è che dà forza a tipi xenofobi e anti-globalizzazione. Le stesse forze populiste che demonizzano i migranti e, in particolare, i rifugiati, e che spingono verso il mito di un futuro protezionista. Forze che sono al lavoro ovunque nel mondo. Questa è la preoccupazione».

Sempre sul Smh, Brexit fa paragonare il Regno Unito alla Svizzera che, nel 1992, rifiutò l’ingresso in Europa con un referendum. Ma, scrive il quotidiano «Qual è l’unico problema? E difficile che la Gran Bretagna (o qualsiasi altro Paese europeo) sia in grado di replicare, abbandonando l’Unione Europea, ciò che è noto come il “miracolo svizzero”», ossia un altissimo reddito procapite e una bassa disoccupazione. Illusioni. E paura di una virata xenofoba. Mohammad Zia Adnan, un giovane che scrive per il pachistano The Dawn e che in Gran Bretagna ha diritto di voto ma non è andato alle urne nel giorno del Brexit perché aveva dimenticato di registrarsi, scrive ora, «Me ne sono pentito». Gli fa eco un titolo di The Times of India, uno dei più autorevoli giornali indiani: «Brexit wins, everybody loses». Più chiaro di così.

Naturalmente c’è anche ci si sfrega le mani. Ancora lo stesso giornale pachistano rivela che c’è chi si muove per comprare immobili approfittando della caduta della sterlina e di una possibile discesa del prezzo degli appartamenti. Che però potrebbero anche scendere troppo e dunque rivelarsi un cattivo affare. Incertezze che rimbalzano sui giornali africani: un articolo del keniano The Star riferisce che una delle più grandi aziende di trasferimento di denaro in Africa, la Dahabshiil, ha spiegato che Brexit potrebbe deprimere il ricco giro d’affari legato alle rimesse degli emigrati e influenzare negativamente gli investimenti nella regione. Preoccupazioni.

C’è infine un altro aspetto interessante che viene suggerito dal giornale di un area asiatica dove il British Rule è durata più a lungo che altrove, fino al 1957: la Federazione della Malaysia che inizialmente comprendeva anche Singapore. Ed è appunto lo Straits Times di Singapore a scrivere di un clima dove prevalgono «istinti tribali, nazionalismo, xenofobia, isolazionismo» e persino violenza. Così, si chiede il Times, potrebbe essere adesso la Gran Bretagna «una delle prime nazioni che ha sperimentato e tratto profitto, della globalizzazione? Quelli della British East India Company, fondata nel 1600, sono stati i primi commercianti globali e aziende globali sono state costruite dalla rete dell’Impero». Colpisce nell’articolo il riferimento al processo di integrazione europea «cui abbiamo guardato in Asia come a un modello», tradottosi poi nelle varie associazioni regionali. «Come ha fatto la Gran Bretagna ad arrivare a questo punto?», si chiede il giornale che ricorda una frase di Winston Churchill, «adulato primo ministro in tempo di guerra, che una volta aveva prefigurato gli “Stati Uniti d’Europa”…».