«So che, in questa hall e in tutto il paese, c’è molta gente delusa per i risultati delle primarie. Scusate, ma credo di potermi permettere di dire che non c’è nessuno più deluso di me». Arrivato, sul podio stellato grigio/blu del Wells Fargo Center dopo le 11, al culmine di una giornata scritta e coreografata appositamente per quel momento (inclusa la distribuzione ai delegati dei cartelli blu con su scritto «Bernie», dopo quella di quelli viola con su scritto «Michelle» e quelli bicolori su cui erano stampati vari altri slogan della serata) Bernie Sanders non aveva un compito facile: non solo ammansire i suoi sostenitori, arrivati persino a fischiarlo ore prima, ma rendere credibile il suo endorsement di Hillary Clinton. Il test di quanto ci sia riuscito forse non si avrà fino a novembre.

Però nel lungo discorso,- la voce arrochita e spesso soffocato dalle urla dei fan – questa volta ce l’ha messa tutta, in un equilibrismo di intelligenza, politica e integrità personale a tratti commovente. «Il punto di quest’elezione non è mai stato Hillary Clinton, Donald Trump o Bernie Sanders, o nessuno degli altri candidati alla presidenza. Il punto di quest’elezione sono e devono essere i bisogni del popolo americano e il futuro che creiamo per i nostri figli e i nostri nipoti. .In questi termini, qualunque osservatore obiettivo conclude che, in virtù delle sue idee e della sua leadership, Hillary Clinton deve essere il prossimo presidente degli Stati Uniti. La scelta non si pone nemmeno».

Prima di elencare i punti che gli stanno a cuore della piattaforma che i democratici presentano qui a Filadelfia (una piattaforma, ha detto, che include parecchi obiettivi in cui lui e Clinton si sono accordati in modo significativo), Sanders ha ringraziato i tredici milioni di americani che hanno votato per la sua «rivoluzione politica» (rivoluzione che, promette, intende portare avanti) e gli otto milioni che hanno contribuito finanziariamente – «per una media individuale di….». E qui, con uno dei suoi sorrisi arruffati, il senatore ha lasciato che fosse la hall ha rispondere, con un boato: «27 dollari!» . Meno reticente del giorno in cui ha annunciato che avrebbe votato per Hillary, in chiusura, e non senza ammettere che tra lui e Clinton «ci sono state delle divergenze», (nella voce una lieve traccia di stizza, forse diretta all’intransigenza di chi lo sta trattando come un traditore della causa) Sanders si è lasciato andare anche a un apprezzamento più personale, «la conosco da venticinque anni. La ricordo come una grande first lady che ha infranto le regole del suo ruolo, portando avanti per prima la lotta per la sanità. La ricordo al Senato dove è stata un grande avvocato per la causa dei bambini. Hillary Clinton sarà un fantastico presidente. E sono orgoglioso di essere al suo fianco questa notte».

Se, queste parole, con cui Sanders finito il discorso, non hanno convinto completamente tutti i delegati presenti, le delegazioni di ogni stato raggruppate individualmente (la più rumorosamente sanderiana quella della California; quella più anti Hillary, lo Utah: i cappelli e gli abiti più pittoreschi, il Wisconsin; mentre quella più assediata dai media era New York), la temperatura nella hall era notevolmente più calda e reattiva che a inizio giornata. Designati per rodare il pomeriggio in attesa dei “big” programmati per il prime time, i primi speaker (attivisti, sindacalisti, deputati o senatori meno conosciuti, esponenti dei gruppi pro immigrazione, Lgbtq…) sono sfilati uno dopo l’altro nella disarmonia generale in cui il nome di Hillary Clinton veniva puntualmente seguito da «buuu» che arrivavano qua e là, e nell’aria pesava la frustrazione per la catastrofica e (fortunatamente repentina) dipartita della leader del partito Debbie Wasserman Schultz, silurata a causa di mail in cui tramava contro la nomination di Sanders.

Si sa, le convention sono come bolle, eventi per insider del partito, in cui i delegati stringono la mano o si fanno fotografare con i loro idoli (assediato per selfie: il deputato della Georgia, e leader della lotta per i diritti civili, John Lewis; quello con lo staff a seguito più numeroso: il senatore newyorkese Charles Schumer; tra i più gioviali Patrick Kennedy), che si aggirano sotto il palco sorridendo fissi, come star ai Golden Globes. Si tratta di spettacoli sceneggiati fino all’ultimo dettaglio (l’happening trumpista a Cleveland è stato un’eccezione anche in questo). Punteggiata di clip anti -Trump e di (molto più efficaci) evocazioni di grandi eroi progressisti (Mario Cuomo è apparso in un bel video, con il suo discorso alla convention di New York per la nomination di Bill Clinton), la giornata dedicata all’ala più liberal del partito ha cominciato a riprendere quota – non a caso – con l’arrivo dell’ex comico (era tra gli autori di Saturday Night Live), ex commentatore politico e attuale senatore del Minnesota Al Franken, un liberal e clintoniano convinto, che dopo aver lanciato al pubblico alcune succose frecciate su Trump, ha chiamato a raggiungerlo un’altra comica, Sarah Silverman (autrice, nel 2008, di un magnifico viral video che insegnava ai giovani ebrei della Florida come convincere la nonna a votare per Obama).

Nei panni della Sanderista sfegatata che voterà per Hillary, Silverman ha ammonito la fazione «O Bernie o niente»: «Vi state rendendo ridicoli». E, a pennello, Paul Simon ha seguito con una canzone dal titolo emblematico del momento A Bridge Over Trouble Water (un ponte su acque turbolente). Anche dal punto di vista dei testimonial, tra Cleveland e Filadelfia non c’è partita.

Collocata ad hoc subito prima dell’apparizione di Sanders, Elizabeth Warren ha nuovamente provato di essere abilissima a demolire Trump e rilanciato i grandi temi della diseguaglianza e dell’ingiustizia sociale.

 

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Ma, poco prima di lei, a rendere veramente elettrica la serata è stata Michelle Obama, con un discorso fiammeggiante, modulato secondo la prospettiva a cui affida quasi sempre le sue cause, quella di una madre. «Sono qui questa sera, e in quest’elezione, perché c’è una sola persona qualificata e affidabile per diventare presidente degli Stati Uniti, ed è la nostra amica Hillary Clinton», ha detto. E se il nome di Hillary, anche nel corso della serata, ogni tanto spuntava qualche “buuu”, quando lo ha pronunciato questa first lady amatissima, nessuno ha osato contraddirla. «Quando, otto anni fa, Hillary Clinton non ha vinto la nomination, non è diventata amara o disillusa. Non ha fatto le valige ed è andata a casa. Perché sa che il servizio civile è una cosa molto più grande dei nostri desideri e delle nostre delusioni. E ci sono stati molti momenti in cui Hillary avrebbe potuto decidere che il prezzo era troppo alto che era stufa di essere fatta a pezzi per il suo aspetto, per come parla e persino per come ride. Ma, ed è la cosa che ammiro di più in lei, Hillary non si tira indietro quando le cose si fanno difficili, non prende scorciatoie. Perché Hillary, nella sua vita, non si è mai fatta indietro una volta».

Nell’immagine più memorabile del suo discorso («Mi sveglio ogni mattina in un edificio costruito dagli schiavi. E guardo le mie figlie – due bellissime, intelligenti, giovani afroamericane – giocare con il cane sul prato delle Casa bianca») la voce e lo sguardo di Obama hanno tradito, oltre a una commozione insolita per lei, tutta la sua rabbia e l’indignazione nei confronti dei valori rappresentati dalla candidatura di Donald Trump.