Dalla Signorina Effe sono passati diversi anni, la storia ripercorreva la marcia dei quarantamila, i quadri della Fiat che scesero in piazza contro i picchetti e gli scioperi degli operai nel 1980. E lo faceva attraverso un personaggio femminile, una ragazza figlia di operai immigrati dal sud come tanti che «arriva» dall’altra parte, lontano dalla catena di montaggio, negli uffici dove si decide, e fidanzata con un dirigente, e a quei suoi progetti di salita sociale non vuole rinunciare.

 

 

Ma nei film di Wilma Labate capita spesso di incontrare figure di donne, era così il suo esordio, Ambrogio, con la fanciulla che studia per diventare capitano di lungo corso sfidando un regno incontrastato di soli maschi. Oppure storie «scomode», anche narrare la Fiat dalla parte dei quarantamila è quantomeno eccentrico rispetto al cinema operaio, almeno quello che elimina le tensioni col quale si identifica spesso il «genere». Così come è quasi una provocazione in Italia affrontare il tabù dei tabù, i cosiddetti anni di piombo italiani come ha fatto in La mia generazione, ancora una volta privilegiando il conflitto alle risposte pronte.

 

 

Sarà forse per questo che fa fatica a fare i suoi film, Wilma Labate, perciò siamo contenti di ritrovarla al festival di Torino con questo Qualcosa di noi, in cui mette al centro un nuovo personaggio femminile, una donna forte e affascinante, coi capelli platino cortissimi e tatuaggi ovunque che si chiama Jana e nella vita fa la prostituta. E così da quello che appare all’inizio come un colpo divertito di teatro boulevardiano – Jana che ritrova i segni del vecchio albergo di piacere nel piano superiore del ristorante – «Sotto si mangiava, qui c’era il dolce» – si finisce per avventurarsi nel terreno assai complesso, e pure un poco scivoloso della vita in cui le sicurezze, le visioni chiare finiscono per confondersi e liberare altro.

 

 

Il luogo è un borgo vicino a Sasso Marconi, fuori Bologna, in mezzo ai campi, nel giardino di quella antica casa di incontri amorosi a pagamento. È lì che Wilma Labate porta gli undici allievi della Bottega Finzioni, la scuola bolognese di scrittura. Sono giovani, trentenni o poco più, e molto diversi tra di loro; c’è Laura che è un’attrice e si è spostata a Roma, dove fa l’occupante del Teatro Valle « a tempo pieno», e a vederlo oggi il film diventa quasi una memoria contemporanea di quell’esperienza. E c’è Silvia che scrive il suo blog con uno pseudonimo «perché il nome non lo hai scelto tu. pensano alla scrittura come qualcosa di lontano da raggiungere – «Fare lo scrittore» ripetono con tono sospeso – e c’è anche qualcuno che ci ride un po’ su. Labate ha insegnato a Bottega Finzioni per un anno, il film è nato un po’ come una scommessa per mettere alla prova gli allievi, e risvegliarli come dice lei dal torpore che spesso di respira in aula coinvolgendoli nel mistero di un set.

 

 

Eccoci dunque nella stanza bianca insieme a Jana che svela con malizia divertita i segreti della seduzione: il separé che nasconde agli occhi del cliente la ragazza mentre lei si spoglia, e lo specchio dove si riflettono le nudità. «Guardare eccita moltissimo e ci sono infiniti stratagemmi per accelerare la tensione erotica» spiega Jana. I ragazzi l’ascoltano un po’ incuriositi, un po’ perplessi.

 

 

Tu lo faresti? è la domanda che vaga nell’aria e che presto si concretizza. No afferma sicura una ragazza. C’è chi lavora ventitrè ore al giorno replica piccato un altro. Ma le certezze non interessano Labate che piano piano conduce in questo questo gioco di seduzione, ma anche di disvelamento i suoi protagonisti a mostrarsi nelle loro contraddizioni.
Le dimensioni contano? chiede un po’ arrossendo un altro ragazzo. Jana risponde a tutto, molto a suo agio all’apparenza, che quel lavoro, quel suo corpo-azienda ha imparato a guardarlo da lontano; è la distanza le permette di tornare a casa la sera e di amare solo il suo uomo dopo avere lavorato per accontentarne degli altri. «Tutto dipende dal valore monetario che dai la tuo corpo» dice con freddezza.

 

 

Possibile? sembrano chiedersi i ragazzi. Il fatto è che Jana non cerca giustificazioni, e nemmeno Labate, i moralismi o le sentenze non interessano la sua macchina da presa che predilige invece i bordi, gli spazi vuoti, incerti. Piano piano le voci si intrecciano, qualcuno ricorda quando da ragazzetto è andato con una prostituta: erano quattro africane, lui sembrava il pappa di diciannove anni. Poi nel momento che hanno fatto sesso si è messo quasi a piangere, e lei si è spaventata. I dubbi si accavallano, si parla di desiderio e di sopravvivenza, di cosa significa trasgressione, e dei sentimenti che fanno davvero paura, e quel «Qualcosa di noi» assume un diverso significato, la scelta di un cinema che non ha risposte o certezze ma vuole regalarci una scoperta, uno spigolo, qualcosa di noi.