Il 30 aprile 1947 Emilio Lussu interveniva all’Assemblea Costituente, riunita in Seduta plenaria, sulla dizione proposta da Tristano Codignola «Il patrimonio artistico e storico della Nazione è sotto la tutela dello Stato», chiedendo «solo per evitare confusioni ed equivoci», di sostituire Stato con Repubblica. Un segno di avanzata sensibilità territorialista ed autonomista, nel confronto fra concezioni assai diverse, che portò alla redazione finale dell’articolo 9 della Costituzione: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

La cultura centralista era però talmente solida che solo dopo vent’anni si definì l’assetto regionalista dello Stato e dopo cinquanta il primo tentativo di riforma delle competenze. Ora, resa impossibile la delega ai territori, si cerca di tornare a prima del 30 aprile 1947, ciò che rende davvero curioso definire questa riforma il «nuovo».

Un progetto marcatamente neo-centralista con l’incremento secco delle competenze dello Stato (ed eliminazione di quelle ‘concorrenti’) e la ‘Clausola di supremazia’ (art. 117, quarto comma) che «consente alla legge dello Stato, su proposta del Governo, di intervenire in materie di competenza regionale a tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o dell’interesse nazionale».

Il fatto che le Regioni a Statuto speciale siano escluse dalla clausola (ma fino alla definizione dei nuovi Statuti) ha fatto dire ai proconsoli renziani dislocati nelle ‘autonomie’ che queste non vengono toccate. Ma intanto non si potranno migliorare gli Statuti attuali, ed è facilmente prevedibile un loro peggioramento visto che la riscrittura prevista nell’art. 116 avverrà in un quadro di riferimento ordinario fortemente centralista.

D’altronde il commento nel disegno di legge è esplicito: «A differenza della riforma del titolo V del 2001, il disegno di legge in esame reca dunque una disciplina transitoria volta a regolare in passaggio al nuovo sistema di riparto delle competenze». Che è quello delineato per le regioni ordinarie.

Siamo in presenza quindi di un’illusione autonomistica, come nel presunto ‘Senato’.

Si aggiunga il caso della Sardegna, come ha indicato Andrea Pubusa: l’incompatibilità per i consiglieri regionali di far parte di una delle due Camere indicata dall’art. 17 dello statuto della Regione Autonoma. Un vero pasticcio. Ma nei giorni scorsi a Cagliari Matteo Renzi ha promesso il Senato a Pigliaru e Zedda: siamo oltre l’art. 118, neppure quello voteremo perché c’è la chiamata diretta.

Nel campo dei beni culturali e del paesaggio la direzione centralista è netta: le competenze principali passano allo Stato, vi afferiscono tutela e valorizzazione. Alle Regioni resta la promozione di ciò che viene deciso dal centro, ovvero la «disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici».

La grande risorsa della valorizzazione sarà in mano a organismi che interverranno direttamente in nome e per conto dello Stato, togliendo a territori avvelenati il governo dello sviluppo sostenibile, la creazione attesa di lavoro per migliaia di lavoratori cognitivi.

Dove lo Stato non arriverà, ci penserà il volontariato, gestito da politica, finanza di peso, Fondazioni: ciò che spiega il Si del Presidente del Fai Andrea Carandini (con toni fortemente antiregionalisti), e di alcuni bei nomi del settore, attenti e interessati a questa operazione.

Le strategie generali su beni culturali, paesaggio e turismo saranno decise dal centro dello Stato, mentre i prefetti vigileranno sulle intemperanze dei lavoratori in nome dell’interesse nazionale; nello stesso nome il paesaggio sarà con meno difficoltà devastato dalle ‘grandi opere’ di interesse nazionale e dagli interessi nel campo dell’energia.

In fin dei conti la domanda di Anna Finocchiaro («Vi pare che per fare un gasdotto sia necessario passare anche da un ordinamento regionale?») è una sintesi molto espressiva.