Nella settimana del Thanksgiving sono emanati segnali sempre più inquietanti dall’ultimo piano di Trump Tower dove il presidente in pectore prepara il suo gabinetto alla maniera di un torvo reality. Mentre Trump  continua a twittare un flusso di messaggi al popolo, alternatamente petulanti e minacciosi, una parata di pretendenti cortigiani compie il pellegrinaggio alla sua corte di 5th avenue (o al suo club di golf in New Jersey o nella sua reggia kitsch in Florida) fra i flash dei fotografi.  Il caro leader concede interviste patinate e rilascia editti via messaggi video agli Americani: sull’abrogazione dei trattati, la fine delle norme ambientali, le restrizioni all’immigrazione.  La stampa «menzognera» invece, come promesso durante la campagna, è tenuta lontana, salvo venir convocata, come l’altro giorno gli anchor e direttori di tutti i network, per un auto da fe in cui il nuovo comandante in capo li ha apostrofati per nome e cognome per essere stati bugiardi e faziosi e presumbilmente notificati di una musica che sta per cambiare di molto.

Bisogna fare affidamento alle indiscrezioni  che tutti gli esponenti della celebrata libera stampa americana sono stati tenuti – ed hanno subito sottoscritto – il totale riserbo in merito.  Pochi giorni dopo il presidente-celebrity ha visitato egli stesso la redazione dell’odiato New York Times rilasciando dichiarazioni a tutto campo in versione di «amabile antagonista» che ha di nuovo lasciato interdetta la stampa. La facilità con cui Trump  manipola i media  lascia supporre il peggio anche per le altre istituzioni di una democrazia non vaccinata contro la sfacciataggine dell’anomalia trumpiana.

L’enorme fisiologico conflitto di interessi di un presidente eletto con investimenti e affari in ogni comparto dell’economia nazionale ed internazionale, investimenti in numerosi paesi amici ed antagonisti,  è semplicemente sminuito dall’interessato mentre gli esperti sfogliano freneticamente i codici legali in cui sembrano effettivamente non risultare norme precise in merito – oltre all’informale codice deontologico che ha indotto ogni predecessore a disfarsi di investimenti sconvenienti sull’uscio della casa bianca.  Ma se le istituzioni dipendono da un etica volontaria avranno un brusco risveglio con un presidente specializzato nell’infrangere ogni protocollo.

Trump avanza imperterrito, minacciando giornalisti «nemici» di revoca degli accrediti, invitando gli Inglesi a mandargli l’amico Farage come ambasciatore  a Washington e procedendo con la «splendida» opera delle nomine. Nei nomi fin qui annunciati si delinea la sconfitta dell’ala istituzionale del partito che, accodatosi al carro del vincitore, sembra aver mal calcolato le probabilità di poterlo pilotare dagli scranni del congresso. È risultato più che chiaro dall’elevazione di Steve Bannon a consigliere strategico a cui sono seguiti una schiera di giacobini trumpisti in posizioni chiave dell’esecutivo. Alla giustizia Jeff Sessions dell’Alabama, un reazionario del sud che qualche anno fa era  stato squalificato da una nomina  a giudice federale a causa di certe esternazioni sulla superiorità della razza bianca.  Alla Cia è andato  Mike Pompeo del Kansas che considera il Medio Oriente il fronte incandescente di una guerra di religione. Alla sicurezze nazionale il generale Mike Flynn, altro falco anti islamico e teorico del disgelo con Putin. All’istruzione Betsy De Voss una integralista evangelica del Michigan che delle scuole pubbliche apprezza soprattutto la libertà di preferirgli quelle private.

L’unica figura lievemente moderata finora è la governatrice del South Carolina, Nikki Haley,  mandata a fare l’ambasciatrice all’Onu dove non  farà danni.

Procede intanto il lento spoglio per determinare il saldo definitivo di queste singolari elezioni. Il vincitore del collegio elettorale  si colloca ormai oltre 2 milioni di voti dietro l’avversaria nel voto popolare. Trump è presidente in virtù della specifica distribuzione geografica di qualche  decina di migliaia di preferenze in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania.  Una manciata di province hanno sancito la sua resistibile ascesa e la sterzata reazionaria che prevedibilmente annullerà decenni di progressi sociali e ripristinerà nella definizione di Bannon «il destino originario del capitalismo americano».

Quest’ultimo trionfo avverrà a scapito dell’ambiente e  sulla pelle degli elettori working class cui Trump ha fatto la vana promessa di ripristinare un economia irrimediabilmente scomparsa.

Ma ne faranno le spese tutti gli americani la cui nazione è stata usurpata da una banda di estremisti nazional-populisti che nel giro di pochi giorni hanno già normalizzato comizi suprematisti e filo nazisti e intemperanze quotidiane contro  stranieri, immigrati, minoranze e «dissidenti» per le quali nel giorno del ringraziamento la maggioranza dei cittadini, quella che ha votata contro Trump, ha trovato ben poco per cui rendere grazie.