Saif al-Islam è stato condannato a morte (con fucilazione) in contumacia. Il secondogenito del colonnello Muammar Gheddafi è stato condannato insieme all’ex capo dell’Intelligence, Abdullah Senussi, all’ex premier al-Baghdadi al-Mahmudi e altri sei politici organici al regime, deposto dagli attacchi della Nato del 2011.

Altri sette alti ufficiali sono stati condannati a dodici anni di reclusione. Gli imputati sono accusati di crimini di guerra e di aver represso le contestazioni di piazza di quattro anni fa. Al-Islam è anche ricercato dalla Corte penale internazionale (Cpi) per crimini di guerra e contro l’umanità. Cpi ha duramente criticato la sentenza e reiterato la richiesta di estradizione di al-Islam.

L’avvocato di Senussi ha subito annunciato un ricorso alla Corte suprema per invalidare la sentenza. Al-Islam, nelle mani dei ribelli di Zintan che appoggiano il parlamento di Tobruk, non era naturalmente presente nell’aula del tribunale di Tripoli. In udienze precedenti i giudici lo avevano ascoltato via video-link. I Zintani hanno più volte fatto sapere che non consegneranno al-Islam alla Corte di Tripoli.

Il processo ha preso il via un anno fa e, secondo i parlamentari di Tobruk, è stato utilizzato da Tripoli come arma politica per vendicarsi del tentato colpo di stato dell’ex agente Cia e nemico di Gheddafi, Khalifa Haftar, che però si presenta come successore del colonnello. Critiche per la sentenza e per le dinamiche processuali sono state espresse dalle Nazioni unite. L’Alto commissario Onu per i Diritti umani si è detto «profondamente scosso» a causa delle sentenze. Amnesty International ha parlato di «sentenze agghiaccianti» e di un «processo carente». Human Rights Watch ha definito il processo «non trasparente né corretto». Anche il Consiglio d’Europa ha criticato la sentenza. Nessuno tocchi Caino ha definito il verdetto «effetto nefasto dell’intervento in Libia».

Il ministro della Giustizia di Tobruk, al-Mabrul Qarira, ha denunciato l’intero procedimento definendo il tribunale di Tripoli «illegittimo». Il procuratore generale di Tripoli, Sedik al-Sour, ha invece difeso le condanne. Secondo lui, la Costituzione libica prevede processi in cui gli imputati sono condannati in contumacia.

Evidentemente la sentenza ha un valore politico forte nello scontro che vede opposte le due fazioni libiche, divise sul piano della riconciliazione proposta dalle Nazioni unite e tanto voluta, senza risultati, dall’Italia, pure responsabile dell’intervento militare nella coalizione Nato che portò alla cacciata e all’uccisione di Gheddafi, e che spera in un «governo unitario» solo per scaricare – come sempre – lì il nodo dei migranti in fuga attraverso la Libia. Da una parte la sentenza, può essere utilizzata da Tobruk per screditare gli avversari politici di Tripoli. Fin qui questa strategia ha funzionato. Dall’altra, accredita Tripoli come l’unico parlamento che cerca di fare giustizia all’interno della nomenclatura del vecchio regime, nonostante una parte consistente dell’esercito di Gheddafi abbia giurato fedeltà proprio agli islamisti che controllano la capitale libica.

Uno dei provvedimenti fortemente voluti dal parlamento di Tobruk è stata proprio la riabilitazione dei gheddafiani, quei politici che, negli oltre 40 anni in cui il colonnello Muammar Gheddafi è stato al potere, hanno fatto politica al suo fianco. La «Legge per l’isolamento politico», cancellata a Tobruk, fu approvata dal parlamento di Tripoli nel 2013. Molti operatori dei diritti umani definirono la norma come vendicativa e generica nei confronti dei politici dell’era Gheddafi.

Già nel 2012 la Corte suprema aveva dichiarato incostituzionale la legge 37, voluta dal Consiglio nazionale di transizione (Cnt), guidato da Mahmud Gibril, che vietava la glorificazione di Muammar Gheddafi, del suo regime, delle sue idee e della sua famiglia. La legge prevedeva poi la condanna al carcere per chiunque fosse riconosciuto colpevole di apologia di Gheddafi.

Ma nel testo figuravano altri punti controversi, come la condanna per chiunque offendesse la data delle rivolte del 17 febbraio 2011, oppure recasse offesa all’Islam e alle istituzioni dello Stato. Con l’annuncio della sentenza contro al-Islam si è ripreso a combattere a Bengasi. Nel capoluogo della Cirenaica tre soldati sono morti e 11 sono rimasti feriti in un attacco jihadista. giu. acc.