Pur se ampiamente previste le turbolenze sono forti e la macchina governativa delle larghe intese affronta la prova del vero collaudo con lo scontro finale tra Berlusconi e la magistratura.
Dopo la condanna a quattro anni e l’interdizione dai pubblici uffici per cinque, la Cassazione anticipa la data della sentenza per evitare la prescrizione. In un paese normale diremmo che i magistrati fanno il loro dovere. Ma stiamo parlando del processo Mediaset, del bene privato più pubblico e politico dei nostri anni, della radice profonda del conflitto di interessi, difeso da pitonesse, falchi e colombe che minacciano la rivolta contro chi osa giudicare la “colossale” evasione fiscale (ormai accertata senza dubbio dai giudici), del capo supremo. Tremano le stanze di palazzo Chigi. Scosse forti, messe nel conto, tuttavia difficilmente distruttive del blocco di potere (e di salvaguardia del Cavaliere) siglato con il governo Letta.
Non è tuttavia solo il macigno berlusconiano la malattia cronica di cui soffre il sistema. Pur essendo il monopolio tv il cuore malato della soffocante, ventennale, monocultura nazionale, quel sopramondo di larghe intese della grande fabbrica del senso comune, oggi è anche il sistema della grande stampa quotidiana a conoscere un rafforzamento del conflitto di interessi.
Siamo al momento culminante del fuoco pirotecnico attorno alla proprietà del Corriere della Sera, conteso da competitori potenti che combattono di fronte a un paese che assiste passivo allo spettacolo, come un telespettatore di fronte a programmi diversi di un palinsesto comune. Mediaset e Berlusconi da una parte, la Fiat con il Corriere dopo la Stampa, la Gazzetta dello sport, i periodici, i libri, i siti, dall’altra.
«Rcs per noi è strategica, altrimenti non avremmo investito tanto» ha dichiarato Sergio Marchionne, senza spiegare tuttavia in che senso è strategico il possesso di un gruppo editoriale per chi costruisce automobili. Se non che la Fiat pretende la fetta più grande della torta Rcs. Ma il controllo dell’editoria è un boccone ambito da molti, e in questo caso la famiglia Agnelli deve vedersela con l’imprenditore delle scarpe, Diego Della Valle, che grida allo scandalo e chiama in difesa della libertà d’opinione il Presidente della Repubblica rivolgendogli una lettera aperta pubblicata acquistando intere pagine di giornali. Un colpo andato a buon segno, con la sollecita risposta del capo dello stato. Una nota in cui il Quirinale prende le distanze dai colossali interessi in campo: «Non spetta a me alcun commento su questioni e proposte rimesse alla libera determinazione di soggetti economici e imprenditoriali e al giudizio del mercato». Non sapremo dire quale libero mercato agisca nello scontro tra Fiat e Tod’s, semmai una interpretazione maliziosa potrebbe leggere le larghe intese governative, patrocinate dal Colle, come una contagiosa, virale estensione di quei patti di sindacato capaci di condizionare l’informazione legando gli interessi di gruppi industriali, finanziari, politici.
Al presidente non mancherà occasione per tornare su una questione così bruciante, in un paese dove stampa e televisione mantengono fertile la palude che ha trasformato l’Italia in una democrazia di bassa qualità.