02clt_1_piccola_Scianna, Venzia agosto 2016 (ph Manuela De Leonardis)

Un «fracassone» siciliano, come si definisce Ferdinando Scianna (per molti anche Fernando o Fernandino, come lo chiamava la mamma da bambino) e uno svizzero debordante (citando la stessa fonte), René Burri (Zurigo 1933-2014). Due fotografi che hanno creduto nella «ricerca dell’immagine eroica definitiva» inventata da Henri Cartier-Bresson e diventata quasi un mantra per loro, come per gli altri membri della Magnum.

A riconoscere questa sorta di condizionamento bressoniano è lo stesso Scianna in occasione dell’apertura delle mostre René Burri. Utopia (a cura di Michael Koetzle) e Ferdinando Scianna. Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo (a cura di Denis Curti) alla Casa dei Tre Oci di Venezia (fino all’8 gennaio 2016), ricordando una delle frasi ricorrenti del grande fotografo francese: Never second best. «Non esiste una foto quasi buona. O c’è il buono, o non c’è», il fotografo siciliano torna sull’argomento dopo aver guardato (in alcuni casi per la prima volta) un centinaio di scatti dedicati all’architettura realizzati dal collega svizzero dall’Oman a Brasilia, Beirut, piazza Tienanmen a Pechino.

Lo sguardo attento di Burri sapeva cogliere i cambiamenti sociali, ma era anche molto lucido. «Certe volte quello che fa veramente soffrire» – disse in un’intervista del 2005 – «è la consapevolezza di non poter far nulla per cambiare la realtà che stai fotografando. Parlo della povertà, della violenza, della crudeltà, della sofferenza che ho visto in Vietnam, in India, Cina e altrove. Non sono assolutamente cinico, al contrario sono una persona ottimista che crede nell’uomo, ma oggettivamente mi chiedo cosa possiamo fare, quale può essere il nostro contributo».

Tra i ritratti dei grandi interpreti dell’architettura contemporanea (Oscar Niemeyer, Mario Botta, Renzo Piano, Tadao Ando, Richard Meier), esposti nella prima sala dell’ex casa-studio del pittore Mario De Maria (Marius Pictor), un rapporto privilegiato è quello con Le Corbusier, fotografato in momenti privati e pubblici. Nel 1960 al ritorno da Chandigarh, a Zurigo; nel suo studio-appartamento parigino al 24 di Rue Nungesser et Coli e durante la costruzione di Notre-Dame du Haut a Ronchamp, nel 1955 di cui c’è una foto in cui la curva della copertura della cappella crea un gioco di opposti con la linea dell’ombrello aperto per parare la pioggia, frutto di equilibrismi grafici. L’esposizione si tiene in contemporanea con la Biennale di Architettura 2016, proponendo questi due progetti autonomi che dialogano intorno al tema dell’uomo in rapporto allo spazio urbano.

Commissionato dalla Fondazione di Venezia, in occasione dei 500 anni dalla fondazione del ghetto ebraico (a cui è dedicata anche la mostra Venezia, gli ebrei e l’Europa 1516-2016 a Palazzo Ducale), il lavoro che Scianna ha realizzato nel corso del 2016 con una selezione di 50 scatti in bianco e nero (catalogo Marsilio Editori). Il 29 marzo 1516 il governo della Serenissima decretò che gli ebrei dovessero abitare esclusivamente nella zona della città dove si trovavano le fonderie (geti in dialetto locale). Nacque così il primo vero ghetto d’Europa che, come testimoniano ancora oggi le sinagoghe (o Scole) del Ghetto Novo – la Sinagoga Grande Tedesca di rito ashkenazita, la Scola Canton, la Scola Italiana, la Sinagoga Scuola Levantina e la Scola Spagnola – diventò un centro culturale e commerciale cosmopolita, malgrado le rigide regole a cui doveva sottostare perché fosse garantita libertà di culto e protezione in caso di guerra.

Come scrive lo storico Riccardo Calimani, «pur nella precarietà dilagante, disponeva, nonostante tutto, di poteri e privilegi che gli permettevano di farsi ascoltare e di trattare con i propri interlocutori all’esterno, con una libertà d’iniziativa in qualche caso sorprendente». È in questo spazio urbano circoscritto, in cui l’edilizia abitativa si sviluppò in altezza per rispondere alle esigenze di sovrappopolazione, che Ferdinando Scianna – guidato da Ziva Kraus, artista e gallerista che nel 1979 ha fondato l’Ikona Photo Gallery con sede nel cuore del ghetto veneziano – ha osservato le antiche pietre, i muri scrostati, i rifessi sull’acqua del Rio del Ghetto Nuovo, fotografando i ritmi di una quotidianità in cui lo scenario include i gruppi di Chassidim vestiti di nero, gli uomini della comunità di Chabad-Lubavitch con i tefillin durante la Shacharit (preghiera del mattino), l’insegnamento del rabbino capo Rav Scialom Bahbout, il panettiere kosher Davide Volpe. Ascolta, in particolare, le storie narrate da Aldo Izzo, conservatore del vecchio cimitero ebraico al lido e quelle dell’ultranovantenne Virginia Gattegno, ospite della Casa Israelitica di Riposo, venate d’ironia e «spiritosa leggerezza» anche quando il dolore torna a galla. Un percorso attraverso i secoli che non può fare i conti con quel passato a cui riportano esplicitamente le immagini delle «pietre d’inciampo» (Stolpersteine) con la data del 17 agosto 1944.

L’artista tedesco Gunter Demnig le ha collocate anche a Venezia, nei luoghi da cui vennero deportati uomini, donne e bambini assassinati ad Auschwitz e in altri lager nazisti. Dei 246 ebrei veneziani solo otto fecero ritorno.

Oltre alla fotografia e all’agenzia Magnum, un altro elemento comune con René Burri è la creatività in cucina. Anche lui amava cucinare ed era un sostenitore di abbinamenti gastronomici come crauti con pesce…

René aveva dieci anni esatti più di me, era un decano dell’agenzia. Ci vedevamo qualche volta a Parigi, dove si trovava la sede di Magnum. Più tardi siamo stati spesso insieme a fare workshop in giro. Era sempre vulcanico, con il cappello e il sigaro, che era diventato istituzionale da quando aveva fatto la celebre fotografia di Che Guevara. Per la stessa ragione lo chiamavamo «il Comandante». Era un grande fotografo che coniugava il rigore svizzero con una sensibilità innata, molto garbato e affettuoso. Quanto alla cucina, per me è sempre stata un’ispirazione. Il mangiare finisce per costituire una sorta di deposito dell’identità e della memoria. Se, poi, ci si allontana dal luogo d’origine, allora tutto si complica. Il cibo, infatti, diventa uno strumento del ricordo e anche una maniera per rinnovare la lacerazione. Perché andare via è sempre una lacerazione. La cucina, il mangiare, i sapori diventano un meccanismo di relazione e, poi, anche di contaminazione. Perché se vivi per dieci anni a Parigi non ti fai la pasta con le sarde. Cerchi di cucinarla, ma diventa difficile. Dove trovi, a Parigi, il finocchietto selvatico? Lo devi portare dalla Sicilia e surgelare? Magari si può fare con un pesce francese. Allora, a quel punto, ti accorgi che si possono incamerare nuove esperienze culturali senza rinunciare alle proprie. Io adoro il castrato con le zucchine che faceva mia madre, ma altrettanto la cassoeula milanese. Credo che anche per René fosse un po’ così.

Cosa ha significato raccontare il ghetto di Venezia?

I meccanismi della mia ricerca della felicità implicano l’andare in giro con la macchina fotografica e, ogni tanto, avere quella scarica di adrenalina nel credere di aver visto un momento significativo. Se scrivere significa cavare da dentro di sé, fotografare è ritrovare la meravigliosa coincidenza tra quello che si è accumulato dentro e le cose che vengono da fuori. Ho accettato questo lavoro perché mi intrigava un argomento di cui non sapevo niente. Ma, come mi succede sempre da quando ho preso per la prima volta una macchina fotografica in mano, mi è preso il panico. Mi sono chiesto: i luoghi parlano, ma se io non li sento? Poi, come sempre, mi sono confuso con il paesaggio come fa la gallina. Sono stato attento a tutto quello che succedeva intorno e, un granellino alla volta, ho raccolto i piccoli, o grandi, colpi di fortuna che sono il piacere dell’avventura del fotografo. Non mi sono installato nel ghetto per mesi, perché dopo la prima settimana mi sarebbe sembrato di non vedere più niente e mi sarei annoiato. Ci sono tornato quattro o cinque volte in modo da pulirmi gli occhi. In un certo senso ho lavorato a frammenti tra aprile e fine giugno. Nel ghetto vivevano 3000 ebrei che oggi sono meno di 500 in tutta Venezia, di cui solo una cinquantina sta lì. Nascoste dietro le sue facciate ci sono ancora cinque antiche sinagoghe in funzione. Ogni comunità si è fatta la sua, perché, come mi ha detto la meravigliosa vecchina che era all’ospizio ebraico, «due ebrei, tre opinioni». Ho fotografato le case che chiamano grattaceli, cercando di guardarle in modo che raccontassero che gli ebrei non potendo costruire altrove le avevano sviluppate in altezza. E’ Venezia, ma non sembra Venezia. Se si guardano con una certa luce sembrano la muraglia di un carcere. Il ghetto è come un piccolo teatro dove giocano i bambini, ci sono le botteghe, i ristorati kosher, il museo, ma anche i rituali. Una sera Ziva (Kraus) mi ha portato in sinagoga per assistere alla funzione dello Shabbat. Ho vissuto due ore d’inferno… perché mi avevano fatto lasciare la macchina fotografica fuori. I corpi che oscillavano come canne al vento, i cilindri di pelo in testa… Sarebbero state foto fantastiche!