La secessione targata Farage-Johnson presenta una serie di caratteri paradossali. Basti pensare all’infelice profilo dell’artefice del referendum, il primo ministro David Cameron, vero apprendista stregone che da solo dà vita al mostro destinato a divorarlo. Oppure al fatto che da ieri Londra, la capitale, va in direzione opposta a gran parte dell’Inghilterra: una metropoli che non è più, nel nostro immaginario, la metafora del paese (o la parte per il tutto), dato che ha votato compattamente per il Remain, non per Brexit. 

Ancora più sostanziale è però la circostanza che la Gran Bretagna, per voto popolare, si ritiri dall’Unione europea pochi mesi dopo che proprio Cameron era riuscito a strappare a Bruxelles un significativo (ulteriore) pacchetto di privilegi che aveva rafforzato lo statuto di “membro speciale” del Regno Unito in seno all’Unione: garanzie di maggiore autonomia per banche e istituzioni finanziarie della City dai regolatori europei; un accesso più tortuoso ai benefici fiscali e previdenziali per i cittadini europei residenti in Gran Bretagna; e soprattutto assicurazione – nero su bianco – che Londra non sarebbe stata coinvolta in eventuali processi di rafforzamento dell’integrazione politica. In sostanza la Gran Bretagna condivideva con la Germania (su basi, è ovvio, molto diverse) una condizione speciale all’interno dell’Unione di cui questi paesi si sono molto giovati, specie in questi anni di crisi, e che sconsigliava, dal punto di vista del puro interesse nazionale, avventure come quella della Brexit. Non è bastato, evidentemente.

Ci sono molte ragioni contingenti che spiegano l’esito del referendum, una su tutte, l’estrema sensibilità a proposito del tema dei migranti di una opinione pubblica martellata da una incessante propaganda xenofoba. Ma è indubbio che incidenti di questa portata non sono comprensibili se non dentro precise cornici storiche, e dentro miscele di processi che possono, in determinate circostanze, trovare il detonatore giusto in grado di imprimere l’accelerazione che lascia senza fiato chi vive l’evento ( da qualunque parte sia schierato).
E qui la cornice più vicina al cuore di questo evento è evidentemente la relazione tra Gran Bretagna e Europa, difficile fin dai primi tentativi di coinvolgimento di Albione nelle istituzioni comunitarie, agli inizi degli anni ’60 del Novecento. Una faticosa partnership segnata a lungo dalla riluttanza dell’attore britannico a fare i conti fino in fondo con la fine del suo ruolo imperiale; e a sottrarsi al ruolo molte volte giocato nello scacchiere europeo di agente ambiguo delle strategie Usa, specie quelle finalizzate a costruire aree «atlantiche» di libero scambio, e a contenere, per converso, tutti i tentativi di costruzione di un’Europa integrata e autonoma.

La rivendicazione di un forte recupero della cosiddetta «sovranità» va posta concretamente in questo quadro; la nostalgia, che ogni tanto riaffiora, per il passato dell’antica potenza imperiale tende a confondersi con politiche «anglofone» e iperliberiste che, negli anni, hanno perseguito soprattutto un obiettivo, e fino ad ora con successo (grazie anche ai disastri che, da sola, la classe dirigente dell’Unione ha realizzato): evitare in ogni modo la nascita di un’«Europa europea».

Un fantasma di sovranità che si nutre naturalmente di interessi concretissimi. Lo slogan urlato da Farage e dai brexiters, «We want our country back», riecheggia la celebre, rude battuta attribuita a Margareth Thatcher, che nel 1979, poco dopo avere vinto le elezioni in patria, avviava (al Consiglio europeo di Dublino) la sua dura campagna contro il rafforzamento della Comunità europea di allora: «I want my money back».