L’ombra minacciosa di Donald Trump incombe sulla riunione dei capi di stato e di governo, che oggi si trovano a Marrakech per la Cop22, la conferenza Onu sul clima, entrata nella seconda settimana (e che si concluderà il 18 novembre).

Accanto al re del Marocco e al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, sono presenti una trentina di presidenti africani (che partecipano anche all’Africa Action Summit, che dovrebbe permettere al Marocco di spianare il terreno per un rientro nell’Unione africana) e molti capi di stato di paesi dell’area del Pacifico, accanto a qualche leader occidentale: François Hollande, per assicurare la transizione con la Cop21 di Parigi dove è stato firmato l’Accordo storico sul clima l’anno scorso, Mariano Rajoy o il primo ministro portoghese, mentre gli altri europei inviano alti rappresentanti al posto dei leader. Fino a ieri non era neppure chiaro se per gli Usa ci sarà il segretario di stato John Kerry.

L’obiettivo della Cop22 è di precisare le condizioni dell’applicazione dell’Accordo di Parigi, entrato in vigore il 4 novembre, con anticipo rispetto alle previsioni, poiché è stato ormai ratificato da 97 paesi che rappresentano il 69% delle emissioni mondiali di Co2. Ma le posizioni di Trump rischiano di far saltare tutto.

Per Trump, il riscaldamento climatico è “una bufala, un concetto inventato dalla Cina per indebolire l’industria manifatturiera americana”. Nel programma di Trump ci sono la riapertura delle miniere di carbone, il rilancio dello shale gas e l’annullamento delle norme dell’Agenzia federale di protezione dell’ambiente (Epa), che potrebbe del resto persino sparire.

Un segnale inquietante viene dalla nomina, per il periodo di transizione fino al 20 gennaio, di Miron Ebell, per occuparsi del destino dell’Epa. Ebell ha lavorato alla Philips Morris e ha collaborato con il Competitive Entreprise Institute, uno dei centri della diffusione delle tesi di scetticismo sul riscaldamento climatico.

Trump ha già minacciato di far uscire gli Usa dall’accordo di Parigi, che impegna il paese a una riduzione del 28% di emissione di gas a effetto serra entro il 2025 (rispetto al livello del 2005).

Ma se gli Usa, secondo responsabile mondiale per il Co2, denunciano l’accordo, cosa faranno gli altri? In particolare la Cina, primo responsabile, alla cui firma avevano contribuito le pressioni di Obama?

Secondo Laurent Fabius, che l’anno scorso era ministro degli Esteri e ha presieduto la Cop21 e la firma dell’Accordo, uscire dall’accordo di Parigi non è così facile: stando all’articolo 28, bisogna lasciar passare tre anni di adesione per annunciare l’abbandono, che diventa operativo solo dopo un anno. Cioè si arriverebbe al 2020, alla prossima elezione presidenziale Usa.

Ma dei giuristi hanno trovato dei grossi difetti nella redazione dell’Accordo, che del resto è “volontario” e non prevede sanzioni per chi lo trasgredisce: Trump potrebbe far uscire subito gli Usa dalla Convenzione-quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici e così lavarsi le mani e sotterrare di fatto l’Accordo di Parigi.

L’Onu nasconde i timori. La responsabile del clima, Patricia Espinosa, ieri si è limitata ad affermare che l’Organizzazione ha “fretta di collaborare con l’amministrazione Trump e far avanzare l’agenda climatica a vantaggio delle popolazioni del mondo”.

Ormai ci sono le prove che l’azione ha effetto: ieri, un rapporto del consorzio scientifico Global Carbon Project ha rivelato che nel 2015 le emissioni di Co2 causate dall’attività umana sono rimaste stabili, dato che dovrebbe venire confermato nel 2016 (che però resta il più caldo della storia).

Questa stabilità non è del resto sufficiente per rispettare l’obiettivo di un riscaldamento climatico che non superi i 2°.

L’uscita degli Usa comprometterebbe anche i finanziamenti che i paesi più poveri attendono per poter far fronte alle conseguenze del riscaldamento climatico e per l’adattamento alle nuove condizioni climatiche.

Secondo la Banca Mondiale, investire nella lotta contro il riscaldamento climatico è urgente, anche solo dal punto di vista economico: le catastrofi naturali causate dal disordine climatico (inondazioni, tempeste, profughi ecc.) costano fino a 520 miliardi di dollari l’anno (e colpiscono i più poveri).