«L’esilio è un sogno di gloriosi ritorni. L’esilio è la visione della rivoluzione…un paradosso senza fine: guardare avanti guardando sempre indietro»: questo disse Salman Rushdie a John Banville, che nel 1993 lo intervistò per la «New York Review of Books» trovandolo molto cambiato rispetto all’ultima volta che si erano incontrati, dieci anni prima. Banville si aspettava un uomo «iroso, teso, loquace e indignato» e ebbe invece la sensazione di trovarsi davanti a una persona avvolta in una tristezza, che tuttavia in qualche modo lo aiutava a vivere. L’esilio è una insulation in space e una isolation in spirit, come ricordò in un famoso sermone natalizio sulla solitudine di Cristo il reverendo Frederick W. Robertson, a metà dell’Ottocento. Ma è anche una condizione filosofica, a volte adottata consapevolmente per riuscire a tornare in sé e a parlare di quanto ci circonda. Fu quanto accadde a Joyce e, in tempi recenti al suo conterraneo John Banville, il cui celebre libro su Copernico, pubblicato originariamente nel 1976, torna oggi in libreria col titolo La musica segreta (traduzione di Irene Abigail Piccinini, Guanda, pp. 336, euro 19.50).
Banville ha abituato i suoi lettori a uscire dalle mura e dai confini del sé come da quelli della sua Irlanda, e lo ha fatto scrivendo una serie di libri di ambientazione «continentale». Anche riguardo ai generi letterari che frequenta sembra abitare spazi dislocanti, almeno stando ai thriller che firma con lo pseudonimo Benjamin Black.
Nel romanzo dedicato a Copernico, il giovane scienziato polacco alle prese con la voglia di correggere l’errore principale del sistema tolemaico, il geocentrismo, vive in un esilio esistenziale del tutto peculiare, nutrito di tensione e di angoscia. Le sue ricerche potrebbero portarlo, ciò che non accadrà, a un corpo a corpo violento con l’autorità accademica e religiosa del proprio paese: uno scontro simile quello che avrebbe messo alle strette, decenni dopo, filosofi e scienziati come Bruno e Galileo.
Orfano di madre e chiuso caratterialmente, il giovane Copernico è una figura sofferta. Vive con il fratello e l’anziano padre, ma non riesce a stabilire con nessuno dei due un rapporto alla pari. Dopo la morte del padre, assieme al fratello Andreas viene affidato allo zio Lucas, un canonico della chiesa cattolica del Regno di Polonia. Immerso negli studi universitari, alieno ai rapporti sociali, e soprattutto, facilitato dalla propria attitudine alla speculazione e alla ricerca, Copernico volge gli occhi alle sfere celesti, come consolazione alle proprie ansie, e tra Bologna, Padova e Ferrara, comincia a formulare quella teoria eliocentrica che diverrà per lui una vera e propria ossessione.
Lo consuma nell’angoscia, il desiderio di superare l’insegnamento dei maestri, ma anche la consapevolezza di non riuscire del tutto a emanciparsene, come emerge, ad esempio, in un concitato scambio di battute con un accademico, che produce nel giovane Nicolaus un balbettio interiore: «Nicolaus si lanciò subito nel discorso che andava preparando da giorni. Balbettava e sudava, dominato dall’ansia di fare colpo. Pitagora! Platone! Nicola Cusano! I nomi di quei morti illustri gli rotolavano fuori dalla bocca scontrandosi nello stretto corridoio come grandi sfere di pietra. Quasi non sapeva quello che stava dicendo. Si sentiva come intrappolato negli ingranaggi di qualche inesorabile macchinario spaventoso ma farsesco. Eraclide! Aristotele!»
Il confronto con gli ambienti del sapere, Copernico lo affronta non sorretto da certezze né dalla saggezza del dubbio, ma talvolta in preda a un fatalismo pessimista che gli dona tinte timorose di modernità. La rivelazione, subitanea e inaspettata, secondo la quale il sole, non la terra, è al centro delle dinamiche celesti, lo entusiasma e lo spaventa al tempo stesso, e nella ricerca spasmodica di far tornare i conti si perde nell’impossibilità dei propri calcoli: calcoli legati a orbite circolari e concentriche, che lo forzano a rimanere all’interno della limitante logica astronomica tradizionale e istituzionale: «Tu metti in discussione Tolomeo? Ricordati questo: a chi pensa che non ci si possa fidare completamente degli antichi, le porte della nostra scienza sono senz’altro precluse. Rimarrà davanti a quelle porte chiuse a farneticare come un pazzo dei movimenti dell’ottava sfera e avrà quello che si merita, poiché crede di poter corroborare le proprie farneticazioni calunniando gli antichi».
Stretto tra l’intuizione del futuro e la forza attrattiva di un passato ancora impossibile da confutare, Copernico sperimenta un esilio interiore, che via via nel romanzo traduce nell’incapacità di intendere la scienza come soluzione reale ai problemi dell’esistenza. Uno tra i maggiori studiosi della fiction di John Banville, Derek Hand, ha individuato quale peculiarità del libro un equilibrato bilanciamento tra l’arte del «nascondimento» e quella della «rivelazione». Nel romanzo – osserva – Banville «si riposiziona consapevolmente all’interno di una cornice letteraria europea e internazionale, sfuggendo metaforicamente a quella che potremmo considerare la limitatezza dell’Irlanda e di preoccupazioni irlandesi». Sarebbe questo il modo escogitato da Banville per trovare una scappatoia dal «disordine del proprio mondo, ritraendosi in un passato distante». Ma quella speranza di scappare dai confini dell’universo tutto irlandese in cui finiscono per rintanarsi tanti scrittori suoi conterranei, è forse soltanto un gioco dialettico, poiché anche in questo romanzo il protagonista mostra una certa familiarità con intrighi nazionali e divisioni religiose settarie che sono ben presenti, sebbene i motivi siano cambiati nel tempo, a un pubblico irlandese.
Il 28 novembre scorso, a Dublino, nel teatro della National Gallery of Ireland, durante una lettura integrale dell’Inferno John Banville ha fatto la sua comparsa, con tanto di buste dello shopping al seguito, per leggere – nella magistrale traduzione inglese di Seamus Heaney – il canto XXXIII, quello dei traditori della patria. Il tributo di Banville andava all’internazionalismo letterario che da sempre lo riguarda e che nacque forse proprio dal successo del suo romanzo giovanile su Copernico, un libro dato alle stampe oramai più di quarant’anni fa; solo nel romanzo gemello, La notte di Keplero, si sarebbero specificate le peculiarità letterarie di John Banville, che non a torto oggi è considerato una delle voci più significative nel canone irlandese contemporaneo.