Chissà se la parola copione, cioè il testo che gli attori leggono per recitare la loro parte a teatro, va messo in relazione con la parola di origine latina copia, nel senso di abbondanza, oppure con l’altro termine copula, che ha a che fare con la coppia, con la riproduzione, anche nel senso della moltiplicazione della stessa cosa (una o più copie, più o meno conformi…).

Come che sia, la parola è saltata fuori nel corso di una specie di gioco-laboratorio proposto venerdì scorso durante l’incontro tenuto alla Casa Internazionale delle donne di Roma con il titolo «Primadellaviolenza. Che uomini vogliamo essere?». Una iniziativa nell’ambito delle giornate contro la violenza maschile sulle donne promosse da alcune centinaia di uomini e diverse reti, gruppi, associazioni.

Si trattava, tra una quarantina di persone – numerosi uomini, qualche donna – di attaccare alcune foglie-foglietti con parole trovate lì per lì, a una radice centrale, costituita dalla parola-frase «Prima-della-violenza», per costruire diversi «rami di senso», un albero di concetti concatenati gli uni agli altri, in modo casuale ma non privo di scelte logiche. Io e il mio compagno di gioco (un simpatico bolognese di nome Lorenzo, appena incontrato) abbiamo elaborato la successione delle foglie-parole «io», «io e lei» e la serie «Sereno, pioggia, sereno, tempesta», quest’ultima ottimisticamente barrata. Volevamo dire che se nella relazione si riconosce e si affronta il conflitto, forse si riesce a evitare la violenza…

Ad alcune di queste parole altri e altre hanno aggiunto, nello stesso «ramo», la parola «famiglia», ed è qui che è apparso anche il «copione». In senso negativo: non si ha cura della verità (quella soggettivamente raggiungibile) nelle relazioni se esse sono sovradeterminate dalle parti in commedia, dagli stereotipi sui ruoli di genere che un «copione» ci impone, o quantomeno ci suggerisce con insistenza.

L’autore di questo «copione» sarà forse il signor Patriarcato, uno scrittore piuttosto screditato, ma che non si rassegna a lasciare il campo, e continua a albergare, più o meno, in ognuno (e ognuna?) di noi.
Il gioco ha anche evidenziato l’ambiguità della radice di partenza: che cosa fa pensare il termine «Primadellaviolenza»? Alla possibilità di prevenirla? Oppure ai cattivi sentimenti e meccanismi mentali che la coltivano e la fanno esplodere?

Le parole che alla fine hanno formato l’albero testimoniavano di entrambe queste direzioni del pensiero. È stato però notato che mentre i termini negativi evocavano direttamente le spinte emotive destabilizzanti («rancore», «sospetto», «gelosia», «possesso»), quelli positivi alludevano piuttosto a metodologie, procedure («rispetto», «ascolto» ecc.).

Quasi mancassero le parole per nominare gli aspetti creativi e amorosi del desiderio: soprattutto da parte maschile?

Forse la costrizione di un copione mal scritto continua a pesare di più sugli attori del cosiddetto sesso forte. In una intervista video che – non potendo essere presente – ha molto cordialmente concesso agli organizzatori dell’evento, lo scrittore Edoardo Albinati ha chiarito una volta di più che la frase tratta dal suo libro La scuola cattolica («Nascere maschi è una malattia inguaribile») va intesa correttamente: la malattia è inguaribile se si resta bloccati nella pretesa di interpretare la parte assegnata da quell’autore sempre più screditato, fatta di ingiunzioni alla prestazione, alla competitività, alla normatività ecc.
Impariamo dal jazz. La partitura e l’armonia bisogna conoscerla bene, ma la libertà è nell’improvvisazione.