Jenny Davin è una giovane medico appena assunta in una prestigiosa struttura privata. È l’occasione per la carriera che sogna, assai più lusinghiera di quell’ambulatorio dove sostituisce il vecchio dottore malato. La sera in cui l’aspettano per festeggiare il nuovo impiego, Jenny litiga col suo stagista, e quando qualcuno suona alla porta gli impedisce di aprire: è tardi, l’orario delle visite è passato da un pezzo: «Ci vuole rispetto per la nostra stanchezza». Ma il giorno dopo scopre che a suonare è stata una ragazza africana trovata morta nel vicino cantiere sul fiume, senza documenti né telefono portatile. Chi sarà? Come dire alla famiglia o agli amici che è morta? L’hanno uccisa o è stato un incidente?
Jenny non si dà pace, si sente responsabile. Comincia così a indagare, una inchiesta ossessiva che rimette in gioco anche le scelte della sua vita. Le fille inconnue è il nuovo film dei fratelli Dardenne, narrazione tesa di uno stile che sa accordare ogni variazione, anche la più impercettibile a un universo poetico netto e identificabile nel quale film dopo film ritornano gli stessi motivi e le stesse domande: una variazione sulla realtà che illumina traiettore universali.

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Non è mai questione di colpevoli o di vittime nel cinema dei Dardenne (autori anche della sceneggiatura) persino nei film meno riusciti come era il precedente Due giorni,una notte rispetto al quale i due fratelli cineasti sembrano stavolta molto più a loro agio – forse anche grazie alla presenza di Adéle Haenel (Les combattents) nel ruolo della protagonista, superba e essenziale (a differenza delle faccette di Marion Cotillard).

Vi ritroviamo anche i luoghi di molti loro altri film, Seraing la periferia di Liegi anonima e indifferente, gli attori, da Fabrizio Rongione a Jérémie Regner e Olivier Gourmet, quasi a sottolineare la continuità di uno sguardo sul mondo, di un’indagine che come quella del personaggio ne interroga – e ne mette in evidenza – il funzionamento negli aspetti meno accettabili. Loro (e lei)non giudicano, non accusano né impongono una visione allo spettatore per tranquillizzarne le aspettative, e tantomeno cercano il sentimentalismo complice che produce comunque un sollievo. Il loro cinema parla del presente, del nostro tempo, quel fotogramma unico e ripetuto che si insegue sugli schermi del festival, attraverso un’immagine la cui dimensione «politica» si produce nei contrasti.

Eccoci dunque in strada con Jenny, seguire i suoi passi, le sue decisioni. Senso di colpa? Ostinazione? La miscela dei due? La donna scopre un mondo invisibile – «ci accorgiamo della ragazza perché è morta» dirà a uno dei suoi pazienti, il più «colpevole». Già. Un po’come la frontiera europea che vede l’altro pezzo del pianeta quando arriva stremato o cadavere sulle spiagge, dietro le barriere, calpestato di nuovo negli accordi economici coi regimi (Turchia), reso merce di investimenti o ricostruzioni.

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I pazienti dell’ambulatorio raccontano la marginalità europea di frustrazione, violenza, grigiore quotidiano nel Belgio che ha scoperto di avere in casa generazioni di giovani col sogno della guerra santa. Un welfare massacrato, lavori precari, figli e genitori che convivono nell’indifferenza, solitudine della vecchiaia. Clandestini che preferiscono farsi tagliare una gamba al rischio dell’espulsione.

Come sempre nei Dardenne è il corpo a parlare, a disegnare la realtà. Corpi malati, stressati, feriti, che fanno fatica a respirare, soffocano nelle convulsioni, vecchi o giovani poco importa. Corpi che sono soltanto merce, ignorati, calpestati, sfruttati: un prostituta o un lavoratore «clandestino», l’interinale che non ha quasi diritto di fare pipì, l’operaio senza norme di sicurezza. È questo il nostro tempo in cui la spinta a ribellarsi sembra svanita per sempre. Implacabile macchina di disumanizzazione che per tutto sa trovare una possibilità. Rimangono poche zone di resistenza, silenziose, spesso casuali. O forse no. Ma i Dardenne appunto le soluzioni non le danno.