Foxconn, azienda controllata dal conglomerato multinazionale cinese-taiwanese Hon Hai che suscitò scalpore alcuni anni fa per la serie di suicidi (18 tentati suicidi, 14 morti nel 2010) verificatisi nella sua sede di Shenzhen, è famosa per il suo ruolo di snodo chiave nella manifattura in subappalto di prodotti elettronici di alta gamma. Il suo committente più celebre è la Apple, ma vi si rivolgono tutte le maggiori multinazionali dell’elettronica americane, sudcoreane e giapponesi.

Per mesi, la «fabbrica-lager» fu al centro di un dibattito internazionale sul dilagare di condizioni di lavoro che violavano i diritti umani degli operai nei paesi in cui le maggiori aziende del settore installano le proprie «fabbriche del mondo». Venne stigmatizzato il cinismo delle grandi corporation, l’ipocrisia delle loro campagne mediatiche. Fu lanciata una campagna di boicottaggio, mentre le denunce del regime quasi schiavistico di lavoro accrebbe indubbiamente la sensibilità e l’attenzione del pubblico sia in Cina che negli altri paesi che utilizzano i prodotti assemblati o parzialmente realizzati dalla Foxconn. Qualcuno fece anche notare che all’epoca dei suicidi, l’azienda in questione aveva 930.000 addetti, che il tasso di suicidi nella società cinese è molto alto, che la forza lavoro – non soltanto nelle aree in cui si produce per l’esportazione – è inquadrata in regimi occupazionali, retribuitivi e di protezione sociale assai più penalizzanti per il lavoratore di quelli in vigore nelle fabbriche del gigante taiwanese della produzione in subappalto.

Docili e disponibili
La vera «notizia» – e lo scandalo più eclatante – forse era un altro, ovvero il regime stesso della produzione globalizzata, la complessa interazione di biopolitica e desiderio che permette ai protagonisti dell’economia mondiale (corporation, certo, ma anche interi sistemi produttivi nazionali) di aggiogare alla massimizzazione dei loro profitti e alla conquista di quote di mercato che hanno anche risvolti di carattere geopolitico le ambizioni di riscatto sociale personale e famigliare di milioni di ex contadini e aspiranti consumatori urbani. Non solo in Cina, non solo nell’ambito delle aziende che producono le protesi cognitivo-comunicative di cui non possiamo più fare a meno, ma in tutti i paesi in cui urbanizzazione, transizione demografica, incremento dei livelli d’istruzione e del reddito medio pro-capite rendono disponibile (e volenterosa, docile) forza lavoro un tempo vincolata al lavoro agricolo o segregata entro le mura domestiche.
La possibilità che Foxconn incarni un paradigma caratterizzante del capitalismo globale contemporaneo ispira la ricerca sul campo realizzata in questi anni da un gruppo di ricercatori pionieristico per la sua composizione, dato che i suoi coordinatori – Pun Ngai, Lu Huilin, Gu Yuhua e Shen Yuan – sono originari di tre diverse società cinesi (RPC, Hong Kong e Taiwan), oggi più che mai interconnesse a livello economico e politico, malgrado le rispettive caratterizzazioni politico-istituzionali ed ideologiche.

Il loro lavoro è confluito in un volume collettaneo intitolato Io sto alla Foxconn, pubblicato a Pechino nel 2012. L’anno seguente Ralf Ruckus ne ha curato l’edizione tedesca, il cui titolo ha optato per un registro assai più provocatorio: iSlaves. Sfruttamento e resistenza nelle fabbriche cinesi della Foxconn. L’edizione italiana, curata da Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto, presenta questo lavoro con un titolo che ne rispecchia al meglio il valore per una migliore comprensione di come vanno configurandosi i rapporti di produzione nell’economia globalizzata e la segmentazione internazionale dei mercati del lavoro che ne deriva. Edito da ombre corte, La Foxconn e il regime della fabbrica globale rappresenta uno stimolo necessario e urgente alla presa di coscienza su cosa stia diventando il lavoro per una quota sempre più rilevante della popolazione attiva planetaria. Specialmente per i suoi segmenti più giovani, soprattutto per le donne.

I nodi da sciogliere
Tra gli spunti di riflessione numerosi che questo cospicuo esempio di public sociology – il progetto di ricerca è molto ampio e coinvolge una sessantina di ricercatori e studenti di una ventina di università nei tre contesti citati – offre al lettore, spiccano tre elementi particolarmente significativi. Il primo è l’ispirazione metodologica: è difficile pensare a esempi paragonabili di ricerca sociale promossa dall’accademia, massicciamente partecipata e messa al servizio di un tema che non solo caratterizza l’impianto socioeconomico generale, ma investe l’intera collettività per le implicazioni sociali ed etiche della violenza che esercita sulle fasce più fragili e numerose della popolazione. Il fatto che poi tale ricerca intersechi delicatissime linee di faglia politiche del complesso mondo cinese contemporaneo – rese palpabili negli ultimi tempi in seguito al protrarsi delle proteste di Occupy Central a Hong Kong e alla volatilità del dialogo politico tra Pechino e Taipei – la rende tanto più apprezzabile e necessaria.
Il secondo elemento è l’impatto che le componenti di denuncia di questo lavoro potranno avere nei tre contesti considerati sul piano comunicativo, sociale e politico. In Cina la nuova leadership del Partito comunista sostiene di avere a cuore lo sviluppo di maggiori tutele nei confronti dei lavoratori, ma nel contempo le sue politiche di inurbamento accelerato della popolazione rurale, con la promozione di piccoli e medi centri urbani che possano da un lato decongestionare le metropoli e dall’altro evitare che le campagne si trasformino in discariche sociali, non fanno altro che fornire nuove api operaie all’arnia del capitalismo di stato. Quali margini esistono in Cina, a Taiwan e Hong Kong per la nascita di movimenti operai che possano mettere in discussione il ruolo egemone del capitale e della politica sulle loro condizioni di vita e di lavoro?

Infine, la terza questione che il testo tocca costantemente ma forse non esplora fino in fondo, è il nesso che l’organizzazione del lavoro all’interno delle «fabbriche del mondo» presuppone tra la disponibilità del lavoratore (e in particolare della lavoratrice) a piegarsi a una certa visione del rapporto vita/lavoro, imperniata sulla disciplina stretta dei corpi, degli spazi di vita, delle possibili espressioni del sé sia personale che collettivo, delle diverse declinazioni di pubblico e di privato, e il regime biopolitico più ampio e generale in cui si iscrive la vita delle persone nella società cinese di oggi, soprattutto nei centri urbani.

Un modello totalizzante
Si tratta di un regime che si apprende nel contesto famigliare e a scuola, reiterato dai media e dalla comunicazione pubblica, dal linguaggio dei servizi pubblici e delle aziende, dalla stessa configurazione fisica dei luoghi e degli spazi destinati all’abitazione, all’apprendimento, al lavoro. La fabbrica globale si colloca su di un continuum di controllo della vita delle persone che capitale privato e tutela pubblica generano e reinterpretano in controcanto vicendevole (e forse perfino inconsapevole), coartando la volontà degli individui senza troppe scosse, erodendo in modo pervasivo le resistenze latenti, reprimendo decisamente quelle manifeste: ed è questa forse la dimensione più inquietante che il caso Foxconn racconta del nostro presente.