Nudo, senza cassa e con una croce di cipresso sul petto. Sono queste le indicazioni per la sua sepoltura dettate da un Parmigianino morente. Una scelta estrema, che corona una vita tormentata, finita precocemente (a 37 anni) e, secondo quanto scrisse il Vasari, «in miseria» per quel desiderio folle di «congelare mercurio» dandosi alle pratiche alchemiche (peraltro molto in voga nella Parma del suo tempo). Prima, avendo tirato troppo per le lunghe i lavori presso la chiesa della Steccata (iniziati nel 1530 e nel 1539 ancora in corso d’opera), pieno di debiti, il pittore aveva assaggiato il carcere e poi, in fuga, aveva tentato di dissuadere con una lettera supplichevole Giulio Romano a prendere il suo posto, in nome dell’antica amicizia che li aveva legati a Roma, città che Parmigianino aveva precipitosamente abbandonato a causa del Sacco del 1527. Secondo alcuni documenti, venne imprigionato anche lì insieme a Rosso Fiorentino (con cui era solito scambiarsi disegni) e Jacopo Sansovino: vennero pagati 55.507 ducati d’oro per la loro libertà. E proprio a Roma, la sua arte aveva spopolato: vi era giunto portando con sé, come biglietto da visita, quell’Autoritratto riprodotto in maniera stravagante, dentro uno specchio convesso da barbiere.

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Parmigianino, «Conversione di san Paolo», 1527 (Kunsthistorisches Museum, Vienna)

È il Parmigianino che inchioda l’occhio ai corpi sospesi a metà tra il reale e l’artificio, che brunisce le carni con un metallico alone, spingendo l’arte verso quella Maniera che nutrirà gran parte del gusto europeo di lì a poco, quello che riscopriamo nella mostra allestita presso le Scuderie del Quirinale di Roma (visitabile fino al 26 giugno, a cura di David Ekserdjian). L’artista si svela in una sequenza di tredici dipinti, tra cui Antea, la Schiava turcaPallade Atena della Royal Collection, la Conversione di Saulo del Kunsthistorisches Museum di Vienna, e molti disegni.

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Correggio, «Danae», 1531-1532 (Galleria Borghese, Roma)

La sua lunare attitudine al ritratto deve vedersela con il più anziano conterraneo Correggio (Antonio Allegri, 1489-1534), presente con diciannove opere – dal Noli me tangere del Prado alla Danae della Galleria Borghese fino alla bellissima Santa Caterina con libro (è un’attribuzione, custodita sempre alla Royal Collection) – e una cospicua parte dei famosi disegni a matita rossa, dove risuonano note leonardesche. In mezzo ai due titani dell’arte del Cinquecento, alcuni pittori (come Michele Anselmi, che traccerà quasi una linea mediana fra i due stili, Francesco Maria Rondani, Girolamo Mazzola Bedoli e Giorgio Gandini del Grano) testimoniano la vivacità di Parma, piccola cittadina di 15mila abitanti che culturalmente guardava alla scuola lombarda o si spingeva fino alla Toscana e che, d’improvviso, viene portata in vetta dalle cupole perse negli umori e vapori di Correggio, fin da subito sganciatosi dal Mantegna per ascendere in uno spazio incerto, percorrendo elettriche scie luminose e aprendo la strada alle spericolatezze barocche. Ma Parma superò i propri confini geografici grazie anche alle elaborate, intellettualissime simmetrie degli ovali (alchemici) delle Madonne e dame di Girolamo Francesco Maria Mazzola detto il Parmigianino (1503-1540) che, instancabile, studiava i versi del Petrarca e si arrovellava sulle tonalità nervose e argentee della sua stessa pittura.

Lui, figlio d’arte, allevato dagli zii alla morte del padre, seguito da un mecenate come il Baiardi che lo sosteneva e copriva i suoi debiti, forse ripagato dall’artista con opere (alla sua morte, l’inventario riferiva di 22 dipinti e 495 disegni), non tardò ad allontanarsi dll’influenza del Correggio che aveva visto lavorare a san Giovanni Evangelista. Se quest’ultimo giocava con l’illusione e l’impalpabilità dell’aria, l’altro cominciò a blindare le sue figure in linee geometriche, sbalzandole dal fondo.

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Correggio (attribuzione), «Santa Caterina che legge un libro», 1530 ( The Royal collection)

Una esposizione ardua questa romana, anche perché molte opere degli artisti posti a confronto sono affreschi (cupole, presbiteri, «camere», «stufette», etc), lavori inamovibili e spesso lasciati incompiuti. L’itinerario alle Scuderie raggiunge il suo apice nella stanza centrale dedicata alla produzione grafica, ma disorienta il pubblico lasciandolo brancolare in un buio cronologico davanti ai dipinti: non c’è mai una data nelle didascalie, solo il pannello esplicativo dà le coordinate temporali, in decenni o ventenni.

Per quanto riguarda il «salto» figurativo, la frattura definitiva con il Quattrocento, c’è anche il meraviglioso pergolato vegetale con i suoi putti e la cacciatrice Diana della Camera della Badessa di san Paolo: in mostra, è sfiorato da un disegno che ne abbozza le sue figure bambine: negata allo sguardo per la clausura applicata dal 1524, la volta venne riscoperta nel XVIII secolo, deliziando uno dei primi visitatori, il pittore tedesco Anton Raphael Mengs, che poté ammirarla nel 1774 e ricordare – con il naso puntato all’insù – le logge raffaellesche.