«Qualche maliziosa voce aveva sostenuto che il quesito era stato formulato in modo che portasse naturalmente a una bocciatura». Riappare l’ex ministra del lavoro Elsa Fornero nei commenti alla decisione di ieri mattina della Corte costituzionale sui referendum promossi dalla Cgil. Due quesiti ammessi – quello che vuole cancellare i voucher e quello che vuole ripristinare la responsabilità in solido tra appaltatore e appaltante – ma soprattutto un quesito bocciato, il più atteso. Non ci sarà il referendum sul cuore della riforma renziana del mercato del lavoro, il «Jobs act», e cioè su decreto legislativo che nel marzo 2015 ha introdotto la libertà di licenziamento, cancellando l’obbligo per il datore di lavoro di reintegrare il dipendente in caso di licenziamento ingiustificato (l’obbligo resta solo per i licenziamenti apertamente discriminatori). E non ci sarà il referendum proprio perché la Cgil ha proposto un quesito che puntava a cancellare non solo le norme del Jobs act, ma anche la (più limitata) riforma dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori firmata proprio dalla ex ministra Fornero. Il referendum non ammesso, cioè, avrebbe esteso i diritti dei lavoratori, introducendo un unico limite per l’applicazione generalizzata del reintegro obbligatorio, la soglia dei cinque dipendenti (attualmente prevista solo per le aziende agricole).

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Troppa grazia, per la maggioranza dei giudici costituzionali, che ha accolto la tesi dell’avvocatura dello stato secondo la quale il quesito si presentava come eccessivamente manipolativo dei testi di legge in vigore, difettando in quella «matrice razionalmente unitaria» che da quasi quarant’anni è il requisito che la Consulta richiede ai referendum abrogativi per essere ammessi. Anche se poi oscilla nelle interpretazioni, tant’è vero che ieri la discussione in camera di consiglio – dopo che i giudici a porte chiuse avevano ascoltato le ragioni degli avvocati della Cgil e dell’avvocato dello stato, «istruito» dalla sottosegretaria Boschi e dal segretario generale di palazzo Chigi Aquilanti – è partita dalla relazione della giudice Silvana Sciarra, al contrario favorevole all’accoglimento di tutti e tre i referendum.

Come accade in questi casi, i giudici si sono confrontati (per quasi tre ore) evitando però una vera e propria conta, dal momento che le posizioni di ognuno erano già state chiarite nei giorni precedenti (arrivando persino nelle cronache giornalistiche, tanto che la segretaria Cgil ha parlato di «pressioni senza precedenti») e i contrari all’ammissibilità del referendum sull’articolo 18 erano in maggioranza. Al punto che l’ex presidente Criscuolo, che nel 2015 fu decisivo per la sentenza sulla rivalutazione delle pensioni che mise nei guai il governo Renzi, ieri ha marcato visita lasciando il collegio dei giudici costituzionali in numero dispari (tredici, un giudice deve essere sostituito dal parlamento che giusto ieri ha cominciato con le votazioni). È caduta così l’ipotesi di un pareggio, eventualità nella quale il voto del presidente Grossi (secondo i rumors, orientato per il sì) avrebbe pesato doppio. Sconfitta la tesi della giudice Sciarra, non sarà più lei a scrivere le motivazioni della sentenza sull’articolo 18.

Motivazioni che arriveranno entro il 10 febbraio (prevedibilmente prima) e che per quanto riguarda i due referendum ammessi sono indispensabili per consentire al governo di fissare la data delle urne, tra domenica 16 aprile e domenica 11 giugno. Qualche mese in più a disposizione tornerebbe utile al governo per far cadere anche questi due referendum, modificando la disciplina dei voucher e degli appalti. Per quanto riguarda i buoni lavoro, però, la richiesta del quesito è radicale: la cancellazione dello strumento. Se il governo si limiterà a qualche ritocco, rischierà (così com’è successo, in un caso, per le trivellazioni) che il referendum venga confermato. Questa volta dalla Cassazione.