Che sia «la svolta socialdemocratica» dopo l’iniziale radicalismo o un segno di maturazione dalla fase infantile degli slogan, una cosa è certa: il programma economico di Podemos è la migliore risposta a chi – destra e socialisti – accusa la formazione di Pablo Iglesias di vendere fumo. Presentate a fine novembre, elaborate da economisti già vicini a Izquierda Unida, il barcellonese Viçenc Navarro e il sivigliano Juan Diego Torres, queste 68 pagine di analisi e proposte (scaricabili dal sito podemos.info) sono il «punto di partenza per un programma economico di governo».

La diagnosi del presente muove dalla constatazione che «il capitalismo dà risposte insoddisfacenti ai problemi degli esseri umani». Nella fase neoliberale «sono aumentate le ingiustizie e il rendimento delle economie è inferiore a quello degli anni ‘50/60». Molti i numeri: 40mila vittime per fame ogni giorno nel mondo, quando «per debellarla basterebbe il 2,5% degli aiuti dati alle banche». E 5 milioni di spagnoli a rischio grave esclusione sociale, mentre ogni anno nel Paese iberico finiscono nel cestino 115 kili di cibo commestibile pro capite. Non manca un dato dal grande valore simbolico: l’1% più ricco degli spagnoli possiede quanto il 70% dell’intera popolazione.

E dunque: «Occorre trasformare l’economia capitalista». Non si vagheggia il comunismo hic et nunc, ma si afferma con nettezza che il livello di civiltà dal quale non si può indietreggiare è quello del welfare state «pieno» edificato dalle socialdemocrazie nordeuropee. Una condizione che la Spagna non soddisfaceva nemmeno prima dello scoppio della crisi e della successiva austerity. Una cura, quella dei tagli, che ha peggiorato la situazione: le «riforme strutturali» care a socialisti e popolari (anche la decantata «flessibilità» europea di Juncker è una concessione solo a chi le fa), per Podemos significano «diktat della troika» che hanno fatto aumentare deficit, debito e disoccupazione. Crescono le diseguaglianze in generale, e si accentua la diseguaglianza di genere.

Encomiabile è lo sforzo di pedagogia democratica, le pagine sui mali del sistema economico iberico pre-crisi e i vincoli all’azione dei governi di fronte alla libertà sregolata dei detentori di capitali. Il messaggio agli elettori è chiaro, simile a quello di Syriza: «Se vinceremo, i rapporti di forza reali ci impediranno di fare subito quello che vorremmo». La capacità di manovra di un eventuale governo Iglesias dipenderà «dalla lotta e dall’azione intelligente per stabilire le condizioni migliori per gli interessi delle popolazioni». Uno dei vincoli maggiori è l’euro, i cui errori di costruzione – ormai riconosciuti anche dai suoi architetti – «non furono casuali, ma rispondenti agli interessi di banche, grandi imprese e Germania».

Quindi uscire dalla moneta unica? No. Piuttosto, democratizzazione e modifiche radicali al modo di funzionamento della Bce, che deve perseguire il fine del pieno impiego e non solo della stabilità dei prezzi, e deve poter comprare debito degli stati. Un debito che nella Ue deve poter essere messo in comune e quindi al riparo da attacchi speculativi agli anelli deboli. Il resto della pars construens è ricco di misure, fra le quali: creazione di una banca pubblica, tassa patrimoniale, salario minimo e limite massimo alle differenze salariali, abolizione delle «riforme» stile jobs act e del nuovo articolo 135 della Costituzione (pareggio di bilancio e «priorità assoluta» del pagamento del debito su qualunque altra spesa), riduzione d’orario a 35 ore, incentivi agli investimenti nella green economy, lotta a sprechi e corruzione, cogestione nelle imprese. E la creazione di un’authority indipendente, il «Difensore della generazioni future», che possa «impedire che le decisioni economiche attuali siano adottate senza contemplare il loro effetto sulla vita futura sul nostro pianeta».