Dieci anni fa, l’élite europea ha subito un trauma: il 29 maggio, i francesi avevano votato «no» al referendum sulla Costituzione europea al 54,68% e il 1° giugno anche gli olandesi avevano rifiutato il passo federalista al 61%.

Il fronte del «no» era – ed è rimasto – molto diversificato. In Francia il «no» venuto dalla sinistra ha subito un’opa ostile da parte del Fronte nazionale, mentre la gauche del rifiuto (Pcf, trotzkisti, parte del Ps e dei Verdi), più che insistere su quel «no» poi travolto dalle decisioni di Bruxelles che non ne hanno tenuto conto, continua a cercare di costruire una proposta alternativa alla Ue esistente, sempre più rifiutata dai popoli (oggi in Francia il «no» supererebbe il 60%).

Per ricordare quel voto e soprattutto i dibattiti che avevano infiammato il paese e che restano ancora attuali, il Pcf organizza due giorni di incontri e discussioni sabato e domenica, da place de la République fino a una serie di appuntamenti in altri luoghi di Parigi, un «forum europeo delle alternative» di un’«Europa contro l’austerità», che intende affrontare molti aspetti della «delusione» europea, a cominciare dal rigore fallimentare imposto a tutti, fino alla dominazione della finanza (dibattito a cui partecipa Paolo Ferrero di Rifondazione), passando per tavole rotonde sui beni comuni, la disoccupazione giovanile e il precariato, l’economia solidale, la battaglia contro il Ttip, le prospettive per un’industria moderna, la pace, la presenza in Europa dei media alternativi. La questione del debito e la Grecia sono evidentemente al centro dei dibattiti. Un concerto, sabato sera in place de la République, sarà dedicato ai migranti del Mediterraneo.

La politica francese, dieci anni dopo il «no», è ancora ossessionata da quel voto. E per la sinistra della sinistra, elettoralmente in difficoltà, non è facile affrontare la divisione di allora. D’altronde, più che al «no», il riferimento delle due giornate di lavori organizzate dal Pcf è all’«alternativa», sull’onda di Syriza. Il referendum del 2005 aveva rivelato la divisione tra l’élite europeista e una parte della popolazione, in difficoltà, ostile, che si sentiva perdente della mondializzazione (il 79% degli operai aveva votato «no»). Una frattura che in dieci anni non ha fatto che aggravarsi.

Il problema è che la sinistra della sinistra non è riuscita a porsi come la principale rappresentante di questa consistente componente sociale. Il pessimismo è diventato dominante, i «perdenti» si sono chiusi su se stessi. Il 21 aprile 2002, Jean-Marie Le Pen era riuscito ad arrivare al ballottaggio della presidenziale e dopo il «no» del 29 maggio 2005 c’è stata una progressione del Fronte nazionale, fino alle europee dell’anno scorso, dove si è attestato come primo partito (ma ha votato solo la metà dell’elettorato). Eppure, a favore del «no» allora si erano schierate molte forze sociali, seguite poi al momento del voto dalla maggioranza dei cittadini.
«Non siamo stati capaci, e mi assumo la mia parte di responsabilità, di federare queste forze di sinistra, benché avessimo materia per creare una nuova dinamica», ammette l’ex ministra comunista, Marie-George Buffet.

Quel «no» è rimasto esplosivo anche per François Hollande, che allora faceva parte dei seguaci di Jacques Delors e, dopo essersi schierato chiaramente per il «sì», aveva dovuto rimettere assieme i cocci da segretario del Ps (nell’attuale governo ci sono tre personalità che avevano preso posizione per il «no»: i ministri degli esteri, Laurent Fabius, degli interni, Bernard Cazeneuve e della giustizia, Christiane Taubira).