L’ondata di partecipazione popolare che ha travolto la brutta contro-riforma costituzionale proposta dal governo Renzi viene interpretata con accenti e timbri diversi. Semplificando molto: alcuni sostengono che abbia prevalso, nel voto, una valutazione critica sul merito dell’assetto istituzionale delineato da nuovi improvvisati e improvvidi costituenti, cui è stato – giustamente – preferito quello, più saldo e condiviso, di Calamandrei, De Gasperi e Terracini. Altri ritengono, invece, che abbia maggiormente contato il dissenso cresciuto contro altre recenti «riformacce», dal Jobs Act alla Buona Scuola, fino allo Sblocca Italia, soprattutto nella porzione (maggioritaria) di società che ne ha più duramente subìto gli effetti: personalizzando e politicizzando fino all’inverosimile l’esito della consultazione, Renzi avrebbe, insomma, suscitato l’agognato plebiscito, ma contro se stesso e le politiche del suo governo.

Se tutti riconoscono il concorso di queste due componenti nel determinare l’esito del voto, pochi dicono chiaramente che le «due anime» del No sono, in fondo, proprio la stessa cosa. E invece questo è l’aspetto centrale, non solo per una corretta lettura di ciò che stato, quanto per la corretta indicazione della strada da battere, da domani in avanti. Mi spiego: si è trattato della medesima sconfitta costruita su un duplice piano, perché c’era coerenza in quella rozza e complessiva rottamazione. Dovremmo, dunque, ringraziare Renzi e il suo governo perché hanno, involontariamente, prodotto – col contributo fondamentale di migliaia di cittadini senza mezzi né soldi, impegnati negli oltre 800 comitati per il No – un vero e proprio disgelo costituzionale. E di conseguenza un nuovo protagonismo costituzionale. Di Massa.

Così, con un ritardo di 70 anni, la passione per la Carta di tutti, per i suoi valori e principi, è tornata a germogliare sulle montagne, «nei campi e nelle officine», fin dentro le città e le loro periferie, consentendo, specie a tanti giovani e giovanissimi, di rialzare la testa e lo sguardo verso il futuro.

Da un lato è parso chiaro ai più che la revisione della seconda parte della Costituzione sarebbe servita a proseguire, rapidi e indisturbati, l’opera di smontaggio della sua prima parte, già gravemente compromessa dai plurimi rovesciamenti operati con il Jobs Act, la Buona scuola e lo Sblocca Italia. Dall’altro lato, coloro che hanno compreso la pericolosa direzione del cambiamento proposto, respingendolo il 4 dicembre, mentre rivendicavano il diritto di scegliere i propri rappresentanti anche in Senato, votavano per il diritto ad un lavoro dignitoso, per il diritto all’istruzione come pre-condizione della partecipazione democratica e, più in generale, per l’uguaglianza sostanziale. Mentre respingevano il brutale neo-centralismo del Titolo V, votavano per mettere l’ambiente al riparo dagli atti d’imperio del governo, per salvaguardare i beni comuni, per il «diritto alla città» e alla effettiva partecipazione di tutti nella gestione della cosa pubblica. Ciò è tanto vero che, per paradosso solo apparente, i cittadini sarebbero disposti – ci giurerei – a votare, domani, per una nuova riforma della seconda parte della Costituzione, a patto che servisse a meglio attuarne la prima e che la politica fosse all’altezza di elaborarla e condividerla.

Dare corpo, seguito e forma ad un grande programma di attuazione della prima parte della Carta fondamentale, ad un nuovo risorgimento democratico divenuto finalmente possibile dopo questo disgelo costituzionale, è il vero obiettivo dell’assemblea «Costruire l’alternativa» di domani a Bologna. Vogliamo costruire un programma di governo con le reti civiche e territoriali e la maggioranza delle persone, quelle che hanno bisogno di lavorare per vivere.