Laurence Sterne arrivò a Parigi senza passaporto malgrado la guerra anglo-francese in corso, e fu accolto con entusiasmo da enciclopedisti, femmes savantes, ricchi aristocratici amanti di Shakespeare e del suo Tristram Shandy. Ma a lui non piacquero. Eccessivamente cortesi, figli dell’arte non della natura, quei francesi erano uccelli in gabbia – la gabbia dell’assolutismo, della douceur de vivre, dei privilegi secolari – e, come i suoi scellini lisci perché troppo maneggiati, non mostravano più il profilo originario. In conclusione, disse al suo illustre ospite «erano troppo seri. Mon Dieu! esclamò il Conte, alzandosi dalla sedia. Mais vous plaisantez…». Sterne non scherzava, ma aveva indovinato quale serietà mortale fosse implicita in quel gioco mondano.

Benedetta Craveri con mano felice ha tolto polvere dalla storiografia della Rivoluzione Francese, e dagli archivi di mezza Europa ha disseppellito memorie, ricordi, corrispondenze, aforismi, poesie, commedie, e intricate genealogie (quelle ufficiali e quelle segrete). Gli ultimi libertini (Adelphi «collana dei casi», pp. 620, euro 27,00, con ricchissimo apparato di fonti, bibliografia, regesto, illustrazioni) è intessuto delle voci di chi fu costretto a lasciare Citera per una destinazione senza volto. Sono loro, testimoni dell’inarrestabile slittamento verso il buco nero del 1789 del re cristianissimo Luigi XVI , degli happy few della sua corte e con loro di quella fiorita cultura che aveva investito tutto il secolo, a in-formare la storia magmatica del «mentre», diversa da quella concettualizzata del «dopo». Un protagonista, soggetto ma anche oggetto dell’analisi storica, l’acuto Louis-Philippe de Ségur darà ragione a Sterne: «Nelle nostre brillanti compagnie, per via della frequentazione continua, i tratti distintivi dei singoli caratteri tendevano a sbiadire; e poiché tutti seguivano la moda , tutti erano simili … sebbene interiormente diversi l’uno dall’altro , esteriormente portavamo tutti la stessa maschera, avevamo lo stesso stile e lo stesso aspetto».

Dopo il grande arazzo di dame (La civiltà della conversazione, 2001), Craveri si è misurata con le avventure esistenziali e ideologiche di uno scelto gruppo di libertini, appartenenti alla nobiltà alta, diventati liberali e costituzionalisti con l’avanzare della crisi politica. Critici attivi nella Fronda, l’opposizione aristocratica a Luigi XVI che pur restava il simbolo del loro stesso mondo, con estrema nonchalance applaudivano a teatro Le nozze di Figaro, e guardavano all’Inghilterra come l’esempio più moderno di nazione. «Noi, giovani aristocratici francesi, senza rimpianti per il passato e senza preoccupazioni per l’avvenire, camminavamo gioiosi su un tappeto di fiori che nascondeva un abisso – annotava ancora Louis-Philippe de Ségur –. Libertà, regalità, aristocrazia, democrazia, pregiudizi, ragione, novità, filosofia, tutto concorreva a rendere i nostri giorni felici». Su sette di loro, quasi tutti coetanei, amici, amati dalle stesse donne, invischiati in quella lenta disintegrazione, punta la rinnovata narrazione di quella gigantesca frattura storica e culturale che via via li isolerà, li distruggerà in una sorta di inimmaginabile resa dei conti. Protagonisti di brevi trionfi, di illuse vie d’uscita, di improvvise tragiche accelerazioni, riemergono alla luce della riflessione storica come figure ideologiche, anch’essi attori nel gran teatro della Rivoluzione Francese. Lauzun, «coraggioso, romanzesco, generoso e sentimentale» – secondo Talleyrand – aveva combattuto in America a fianco dei coloni e in Corsica sotto la Repubblica. Visse e morì sulla ghigliottina in perfetto stile libertino, soggetto privilegiato di biografi. I due fratelli Ségur, amici e parenti del duca di Orléans, punto di riferimento dell’opposizione aristocratica, oltrepassarono nell’era napoleonica senza gravi scosse. Joseph-Alexandre ammirava Shakespeare, Choderlos de Laclos e le sue Relazioni pericolose, il romanzo-specchio di quella parfaitement bonne compagnie. Il fratello Louis Philippe, dal 1784 ambasciatore presso Caterina di Russia, fu un abile diplomatico e un interessante memorialista. Preziosi anche i Mémoires di Talleyrand che con i suoi amici anglofili discuteva dei problemi del commercio, dell’amministrazione, delle finanze.

Oltre a Lauzun, Mirabeau, Chamfort, v’era il bel conte di Narbonne, vittima della implacabile passione di Madame de Staël, che lo convinse a schierarsi dalla parte della rivoluzione. Emigrò in Inghilterra, sdegnò Napoleone, salutò con soddisfazione il ritorno dei Borboni. Destino avverso fu quello del duca di Brissac, raffinato collezionista, fedele al re, che si legò anche in morte all’amata Madame du Barry, l’Ange, la bella cortigiana che era stata l’amante di Luigi XV. Si raccontava che la sua testa mozzata fosse stata scagliata nel giardino di lei, a Louveciennes. Le teste mozze del Terrore, ghigliottinate o no, hanno contribuito alla sacralizzazione mitica della grande Rivoluzione francese, spettacolo tragico e rito identitario. Se André Chénier scriveva versi sprezzanti contro lo sconcio balletto della mondanità aristocratica nei «lunghi corridoi bui» della prigione di Saint Lazare, Joseph-Alexandre Ségur componeva un poemetto Ma Prison in cui «tesseva l’apologia di un eroismo di casta», applaudito anche dai tanti emigrés al sicuro in Inghilterra. Ma Du Barry – Jeanne Bécu il suo vero nome –, figlia del popolo, fu l’unica a gridare lo strazio del corpo, l’orrore del rito, commovendo la folla ai piedi del patibolo al punto che il boia dovette affrettare l’opera sua. L’amica pittrice Élisabeth Vigée-Le Brun, la Fée, anche lei nata nel Terzo Stato, commentò: «Anche per questo sono sempre più convinta che, se le vittime di quell’epoca di esecranda memoria non avessero avuto il nobile orgoglio di morire con coraggio, il Terrore sarebbe cessato molto prima». Camus le avrebbe ammirate (Riflessioni sulla pena di morte).

In quel crogiuolo di esperienze nuove che era stata la pre-rivoluzione, il cavaliere di Boufflers, poeta e uomo di mondo, fu spedito in Senegal, nel piccolo centro francese di Saint-Louis, a intercettare i convogli inglesi carichi di schiavi. Si scoprì un colonizzatore con la coscienza e la penna di un Kipling: «In questo paese tutto è da fare, tutto è da disfare, e mai compito fu tanto superiore ai mezzi per portarlo a termine … poiché qui sono tutti ai miei ordini penso sia giusto che io sia agli ordini di ognuno». È nei ritratti di coppie che meglio si esercita l’arte della storica: Maria Antonietta e la sua rovinosa favorita Madame de Polignac, l’elegante Lauzun e il plebeo Mirabeau, il conte di Vaudreuil, l’Enchanteur, gran signore e il suo amico, il suo doppio, Chamfort, l’intellettuale figlio del popolo.

Nell’autunno 1788 la situazione politica impose all’improvviso una scelta di campo. A Chamfort il conte chiese di scrivere un pamphlet contro le pretese del Terzo Stato, ma l’amico si rifiutò di essere lo Swift o il Rabelais della situazione. «In realtà, di che cosa si tratta? Di un contenzioso tra ventiquattro milioni di uomini e settecentomila privilegiati…». E rincarò la dose col famoso aforisma: «Che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell’ordine politico? Niente. Che cosa chiede? Di diventare qualcosa». Al collerico, anche se amabilissimo, Vaudreuil non restò che l’andata e il ritorno dall’esilio. Chamfort, divenuto giacobino, era sospettato, scriveva troppo e troppo bene, e nell’anno del Terrore 1794 preferì darsi la morte di propria mano.