«Riuniamoci tutti alle 18 all’incrocio grande, statale 38, per affermare che il nostro soldato è un eroe».Questo annuncio apparso nella cittadina di Beit Shemesh, alle porte di Gerusalemme, è solo uno dei tanti apparsi in questi ultimi giorni a sostegno del militare israeliano che giovedì scorso ha ucciso a sangue freddo un palestinese ferito e immobile sull’asfalto, Abdel Fattah al Sharif, 21 anni, responsabile dell’accoltellamento (senza gravi conseguenze) di un soldato a Tel Rumeida, ad Hebron. La vicenda, emersa grazie al filmato girato da un attivista palestinese del centro per i diritti umani B’Tselem, mostra una società schierata in maggioranza dalla parte del soldato-killer che, dicono e scrivono tanti israeliani, avrebbe fatto «la cosa giusta» e sarebbe un eroe. La petizione pubblica che chiede di assegnare al militare la “medaglia d’onore” ieri sera era stata firmata già da 51.900 israeliani. Intanto il palestinese che dalla propria abitazione ha ripreso l’uccisione a freddo di Abdel Fattah al Sharif denuncia di essere stato minacciato di morte da parte dei coloni israeliani di Tel Rumeida che si sarebbero detti pronti a bruciare la sua abitazione se non lascerà subito Hebron.

Il caso del soldato-killer, di cui non si può rendere nota l’identità, ha innescato proteste contro il premier Netanyahu e i vertici delle Forze Armate che la scorsa settimana, avevano condannato l’uccisione sommaria del palestinese e approvato l’arresto del militare. I ministri ultranazionalisti, a cominciare da quello dell’educazione Naftali Bennett (Casa ebraica), criticano il primo ministro, che pure è ideologicamente vicino alla destra radicale, perchè ha condannato «troppo in fretta» un soldato che «ama la sua patria» e «ha fatto il suo dovere». Oggi gli arresti del militare saranno prolungati e alcuni deputati ed esponenti dell’estrema destra, fra cui l’ex ministro degli esteri Avigdor Lieberman, saranno presenti al dibattito per incoraggiarlo. Messaggi di dolore e di protesta vengono diffusi in continuazione dalla famiglia, dall’avvocato e dagli amici del militare che, secondo una tesi, avrebbe ucciso il palestinese a sangue freddo perchè temeva che potesse azionare un corpetto esplosivo nascosto sotto la giacca. Tesi smentita dalla testimonianza di un altro militare il quale ha riferito al suo comandante che prima di sparare il soldato sotto inchiesta gli aveva confidato «che il terrorista aveva ferito un suo amico e meritava di morire». A nulla erano valse le rassicurazioni offerte dal testimone sulle condizioni del soldato, ferito solo leggermente dalla pugnalata subita. Inoltre dopo aver ucciso il palestinese il militare è andato a stringere la mano a Baruch Marzel, esponente dell’ala più radicale del movimento dei coloni, accusato più volte in passato di aver preso parte ad azioni violente contro la popolazione palestinese che vive intorno alle colonie ebraiche a Hebron.

Le motivazioni del soldato, vere o false, in realtà contano poco in un clima che, ha notato Natasha Roth del sito d’informazione +972, sostiene e non scoraggia questo tipo di azioni. Un sondaggio della rete televisiva Channel 2 mostra che il 57 per cento degli israeliani è contro l’arresto del soldato ordinato dalla procura militare. La pluralità degli intervistati, il 42 per cento, descrive la sua azione «responsabile» mentre un altro 24 per cento pensa che l’uccisione del palestinese sia stata una reazione naturale. Solo il 19 per cento ha detto che il soldato è andato oltre gli ordini ricevuti e appena il 5 per cento parla di omicidio e approva la posizione presa da Netanyahu e dall’esercito che hanno condannato l’uccisione sommaria del palestinese (contro il 68% per cento). Sui social i commenti sono persino più radicali delle risposte riferite dal sondaggio. Pagine e profili di Facebook sono colmi di inni al soldato e al suo “coraggio” e che esortano a seguire il suo esempio. Il punto centrale è quello degli input che ricevono la società israeliana e i militari più giovani, dal mondo politico e da quello religioso più oltranzista. Il rabbino capo sefardita di Israele, Yitzhak Yosef, qualche settimana fa aveva definito un “precetto religioso” uccidere gli assalitori palestinesi anche se il capo di stato maggiore e la Corte suprema possono pensarla diversamente. Ora lo stesso Yosef ricorda ai “gentili”, i non ebrei, che potranno vivere in Israele solo se rispetteranno i “sette principi” etici della legge religiosa ebraica. Contano anche le continue proposte di legge della ministra della giustizia Ayelet Shaked (Casa ebraica) ben inserite in questa atmosfera. L’ultima, approvata due giorni fa dagli altri ministri, è volta a permettere ai giudici di punire con il carcere i palestinesi minori di 14 anni condannati per “terrorismo”, un reato dai margini larghi in Israele poichè include anche il lancio di sassi contro jeep militari e auto dei coloni. «Il terrorismo non ha età – ha commentato la ministra Shaked – e oggi non ci sono pene corrispondenti alla crudele realtà che abbiamo di fronte. Se vogliamo creare un deterrente e un cambiamento della realtà, allora dobbiamo apportare le modifiche necessarie».

In casa palestinese l’esecuzione di Hebron è considerata la regola e non l’eccezione da quando è cominciata l’Intifada di Gerusalemme lo scorso ottobre. L’opinione pubblica nei Territori occupati perciò non sembra seguire lo sviluppo del caso con particolare attenzione. Esprimono oltraggio invece tutte le forze politiche e il segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat, che ha comunicato di aver chiesto alle Nazioni Unite «l’apertura di un’indagine ufficiale sulle esecuzioni extragiudiziali israeliane contro i palestinesi» dopo l’incontro avuto con l’inviato dell’Onu Nickolay Mladenov.