Era solo una questione di tempo. Ieri il presidente del Consiglio è uscito dalla bolla in cui vive e sembra avere riconquistato un contatto con la realtà. In un’intervista andata in onda su La7 ha ammesso che sarà «molto difficile» arrivare alla stima dello 0,8% contenuta nel Def. Ma poi non ha resistito e si è prodotto in una teoria economica singolare: «Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente per la vita quotidiana delle persone». «La nostra priorità è lavoro. Ma le statistiche, credo, inizieranno a migliorare solo dal 2015». E il principio di realtà, riscoperto nella prima parte della frase, è scomparso d’un colpo. Forse perchè gli italiani tengono moltissimo all’abolizione del Senato e alla legge elettorale. Cioè alla bolla in cui vive il sistema politico in quest’estate surreale. La bolla in cui vive lo stesso Renzi.

La visione del baratro

Perché una crescita all’1,5% è certamente diversa da una crescita allo 0,3%, quella stimata ieri dal Fondo Monetario Internazionale che ha riaggiornato la stima sul Pil italiano per il 2014. Se ci fosse una simile crescita, persino l’auspicio di Renzi potrebbe essere verificabile nei fatti. La crescita sarebbe infatti il prodotto anche di un nuovo lavoro che tuttavia non verrà nè nel 2014 nè nel 2015. L’Fmi sostiene che il Pil sarà all’1,1%. Ad oggi, con l’ormai riconosciuta “jobless recovery”, cioè la crescita senza occupazione fissa, non c’è alcuna certezza di questa stima. Serve a rincuorare Palazzo Chigi che ieri ha visto il baratro in cui si trova. Se crisi ci sarà, verrà dalla realtà illustrata dal Centro studi di Confindustria nella sua “congiuntura Flash” di luglio:

“E’ sempre più palese – scrive il centro studi – la contraddizione tra una Bce che fa tutto quel che può per contrastare la minaccia di deflazione e tutte le altre politiche che verso la deflazione spingono, sia come meccanismo di aggiustamento degli squilibri competitivi sia come conseguenza dei bilanci pubblici”.

Renzi, e il ministro dell’Economia Padoan, sono costretti ad andare in direzione della deflazione, radicando sempre più la recessione in atto, come dimostrano gli impietosi dati snocciolati ieri dall’Fmi e pochi giorni fa dalla Banca d’Italia.

La leggenda dei fondi europei che vanno e vengono

Da una settimana, nell’angolo dov’è ridotto, Renzi ha iniziato a formulare la seguente tesi, prontamente ripresa dai media che hanno lanciato l’operazione-soccorso: quello che conta, dice Renzi, è garantire agli imprenditori l’accesso ai fondi e sbloccare quei 43 miliardi di investimenti annunciati per le infrastrutture, «che non violano nessun vincolo europeo perché sono già conteggiati».

Questi 43 miliardi fanno parte di un patrimonio ben più ampio che Renzi di solito quantifica in 180 o 183 miliardi di euro, dipende dall’enfasi usata in questa o in quella trasmissione televisiva. Secondo Andrea Del Monaco, già consulente sui fondi europei del secondo governo Prodi, questi soldi sono molti di meno: 113 miliardi. Questa cifra è il risultato della somma del FSC (Fondo per lo Svi­luppo la Coe­sione) di 54,8 miliardi, di cui utilizzabili in cassa sono 1,55 miliardi fino al 2016. E poi 22,89 miliardi dei pro­grammi nazio­nali (PON) e regio­nali (POR) cofi­nan­ziati dal FESR (Fondo Euro­peo di Svi­luppo Regio­nale) e dal FSE (Fondo Sociale Europeo); 6 miliardi di euro dei piani regio­nali cofi­nan­ziati dal FEASR (Fondo Euro­peo Agri­colo di Svi­luppo Rurale).

Infine gli 84,2 miliardi di euro del ciclo 2014–2020, circa 63,37 miliardi di euro dei pro­grammi cofi­nan­ziati da FESR e FSE; circa 20,85 miliardi dei pro­grammi cofi­nan­ziati dal FEASR. 

Cosa ci vuole fare Renzi? Scontare il cofinanziamento europeo da Bruxelles e usare questi soldi per tagliare le tasse alle imprese, gli sconti fiscali sarebbero maggiori al Sud che ha la dotazione piu’ consistente di fondi europei. In altre parole vuole trasformare l’Italia in una zona franca urbana, dove vige uno stato di eccezione ideale per le imprese che non pagano tasse, risparmiano sul lavoro e i diritti. La soluzione adottata in Irlanda negli anni Novanta. Del Monaco ricorda che è stato un fallimento: le Zone Franche Urbane attrassero le aziende straniere alla ricerca di sconti fiscali. Finiti gli sconti, le imprese fuggirono verso l’Europa Orientale dove trovarono nuovi vantaggi. L’Irlanda ha fatto default nei primi mesi della crisi iniziata nel 2008. 

Occorre invece riprogettare il sistema produttivo, scegliere dove investire, finanziare la ricerca, la formazione, l’innovazione e i diritti affinché ci sia un effettivo aumento della domanda interna. A cascata dovrebbe arrivare la crescita. Tutto quello che Renzi e Padoan non faranno: la programmazione non è tra le priorità dello stato minimo, né rientra nell’obiettivo di questo governo. Questi sono punti che non rientrano nella ricetta indicata dai Bocconi Boys o da quello che scrive Roberto Perotti sul Sole 24 ore.

Postille su una crescita anemica

Scorrendo gli altri dati dell’Fmi si apprende che la Germania crescerà quest’anno dell’1,9%, per poi rallentare a un +1,7% nel 2015, più di quanto annunciato ad aprile; per la Francia è attesa una crescita dello 0,7% nel 2014, con un’accelerata all’1,4% nel 2015; per la Spagna +1,2% e +1,6%. In generale per il Fmi la crescita di Eurolandia resta «debole» ma anche «disomogenea», sotto il peso della persistente frammentazione finanziaria, di problemi nei bilanci pubblici e privati e dell’alta disoccupazione. Il pil dell’area euro si espanderà dell’1,1% nel 2014, per poi accelerare al +1,5% nel 2015. Nubi anche sulla crescita mondiale. «Restano rilevanti rischi al ribasso», avverte il Fondo monetario, indicando i pericoli legati all’andamento dei prezzi petroliferi, per via delle crisi in Ucraina e Medioriente.

L’Eurotower «deve continuare a sostenere l’attività» auspica il capo economista del Fmi Olivier Blanchard. Dopo aver sottolineato come le recenti misure adottate dalla Bce siano «apprezzate», Blanchard ha osservato che «è troppo presto per valutarne gli effetti, ma se la dinamica inflazionistica resterà ostinatamente bassa, ulteriori misure dovrebbero esser prese in considerazione». Ancora, Blanchard ha evidenziato come la revisione qualitativa degli asset delle banche europee, attualmente in corso, sia «cruciale» per ristabilire la fiducia nel sistema bancario e migliorarne la capacità d’intermediazione.