Ardore, spasimo di verità, avventura dello spirito fino al sacrificio di sé: ecco, se è esistito qualcuno che nella letteratura francese del Novecento ha davvero incarnato e anzi testimoniato l’etimologia dell’adolescenza come qualcosa di bruciante e insieme di dileguante, costui è stato René Crevel, nella cui brevissima parabola (nacque nel 1900 a Parigi e lì si tolse la vita nel giugno del ’35) si combinano e intanto esplodono le contraddizioni artistiche e politico-intellettuali del suo secolo medesimo. Quante cose è riuscito a essere questo ragazzo (ma a lui si attaglierebbe meglio il nativo enfant) minato dalla tubercolosi, di complessa identità sessuale e di tristi natali, figlio di un suicida e di una madre gelida e bigotta, questo poligrafo di vena centrifuga, poeta/romanziere/saggista senza possibili specifiche, questo avanguardista a oltranza ma senza alcuna obbedienza che fu prima un dadaista e poi un surrealista, l’amico di Paul Klee come di Picasso e Dalì, questo marxista libertario che si tolse la vita la sera in cui si consumò definitivamente la rottura fra Avanguardia e Comunismo, quando cioè al Palais de la Mutualité (Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, massima assise antifascista), il Pcf impedì l’intervento di André Breton, reo di avere schiaffeggiato lo stalinista Erenburg, capo della delegazione sovietica, per i suoi insulti reiterati ai surrealisti. Ma il gesto di Crevel, se era esploso in un frangente politico, si originava tuttavia dal terreno di una interiorità minata da trascorsi irresolubili che aveva proiettato in una decina di opere scritte in poco d’ora, in meno di un decennio, e specialmente nel romanzo La mort difficile, del 1926 (uscito in Italia, da Einaudi, solo nel ’92 e qui va aggiunto fra i rari titoli creveliani che la nostra editoria abbia avuto il coraggio di proporre, così impedendone l’accesso al senso comune dei lettori).
Perciò è una buona notizia l’uscita di Il mio corpo ed io (elliot, pp. 118, euro 13.50) nella versione e nella attenta cura di Paola Dècina Lombardi, già firmataria di una importante monografia, René Crevel o il Surrealismo come rivolta (Slatkine 1988). Prima che di un romanzo, dove infatti non esiste plot né premeditazione narrativa, si tratta di un diagramma autobiografico in cui chi dice «io» afferma di trovarsi isolato in un borgo delle Alpi francesi e lì di voler compiere un esercizio di auto-analisi e insieme di bilancio dei propri trascorsi. Né può esistervi una tematica precisa perché è la vita intera, quell’onda di fuoco adolescente che gli sta alle spalle, a rifrangersi di nuovo per bruciare in istantanea sulla pagina: (…) «debbo subito riconoscere che fuggendo l’idea della morte non ho accettato nemmeno quella della vita, e che tutti i miei gesti sono stati piccoli suicidi momentanei che mi hanno alleggerito senza risparmiarmi dolore. Non ho voluto sentirmi vivere. Ho sceso la scala che portava al bar sotterraneo e luminoso. Ho bevuto, ho ballato. La mia carne diventava insensibile».
È in gioco, come nel più classico dei romanzi di formazione, il rapporto fra attesa e compimento, fra slancio e limite, fra realtà e utopia. Il bilancio, per Crevel, è sempre e inevitabilmente in rosso perché il ricordo o l’attesa della vita ipoteca il presente della vita stessa, perché lo «slancio vitale», imprigionato nelle sue ipoteche, si rivela fatalmente un élan mortel, uno slancio mortale, una corsa alla morte. Corpo e psiche vi subiscono un perpetuo spiazzamento, l’esperienza dell’uno non è mai congrua o rispettiva a quella dell’altro come in una dialettica che sia impossibilitata alla sintesi, come in una ferita che non possa mai rimarginarsi. Ma proprio da quella ferita continua a pulsare qualcosa (lo spasimo della carne ovvero la scintilla di un pensiero) che codifica la scrittura e nello stesso tempo, vale a dire nell’ardore che presagisce il gelo, ne legittima l’autenticità. Per il lettore di Crevel è d’obbligo comunque una duplice cautela: egli rigetta il credo surrealista della scrittura automatica e i suoi involontari collages, ineluttabilmente grezzi e meccanici, mentre predilige la polifonia linguistico-stilistica e perciò un andirivieni che alterna la poesia in prosa alla notazione di diario e alla illuminazione aforistica, tanto che si potrebbe dire che la pagina di Crevel ha una andatura elicoidale; nel frattempo, egli respinge ogni dogmatismo ideologico sospettando un abuso surrealista delle icone di Marx e Freud: è vero che andò in analisi dal celebre dottor René Allendy, è vero che scrisse su l’Humanité e per anni fu vicino ai comunisti ma è vero innanzitutto che il suo solo credo consiste nell’ideale di pienezza umana e di conciliazione fra le parti ferite del singolo individuo, come annota in un passaggio terminale di Il mio corpo ed io: «Fede comune, comunione, comunismo delle anime, il sogno di un piccolo Ebreo è stato più forte della presunta saggezza antica, un vagabondo crocefisso è riuscito a vincere le leggi che avevano sopraffatto la sua persona umana, l’antisociale ha permesso al mondo di non crepare sul suo letamaio di ragionevolezza».
È evidente come anche nei compagni di strada surrealisti e comunisti intravedesse, sia pure a segno invertito, una ricostruita e di fatto artificiale, letale, «ragionevolezza». Appena tre anni dopo l’uscita di Il mio corpo ed io pubblica il saggio che unisce la sua poetica a una visione del mondo e infatti lo intitola L’Esprit contre la raison (Cahiers du Sud, 1928), laddove raison vale il «penso-dunque-sono», il cartesianesimo ideale eterno, la vita negata nella sua polivalenza a vantaggio di uno schema astratto o di una ipotesi che deve fare a meno della plenitudine umana, mentre, all’opposto, la nozione di esprit corrisponde non già alla metafisica o agli alibi fumogeni degli spiritualisti bensì all’ardore esistenziale, all’apertura verso tutto quanto è umano e rischioso e, finalmente, alla ferita di ognuno che non sa né può mai rimarginare. Ancora qualche anno dopo, e nel momento di acquisita maturità (posto che il temine sia ascrivibile a un autore meteoritico) Crevel fa uscire il più penetrante dei suoi libelli, Il clavicembalo di Diderot (Feltrinelli 1980, a cura di un allora giovanissimo Vito Carofiglio), originale ripresa del materialismo classico stavolta combinata all’immagine di Diderot secondo cui l’uomo è uno strumento le cui corde sono pizzicate dalla natura ma rimane pur sempre (l’immagine piacque molto a Lenin, nientemeno) uno strumento dotato di memoria storica, la quale incombe su di lui alla pari di una ipoteca disarmante. Si tratta di un pamphlet che nulla risparmia dei tabù e dei miti ideologici della Terza Repubblica, nemmeno il marxismo e la psicoanalisi ufficiale. Agli occhi dello scrittore, l’individuo che vede moltiplicate le catene dentro e intorno a sé può soltanto affidarsi alle armi del sogno e della azione scongiurando o differendo l’incombenza della morte: Non sacrificare il sogno all’azione né l’azione al sogno, soltanto tale endiadi predispone al comunismo delle anime.
Ma la parabola di René Crevel stava bruciando del suo stesso ardore, l’utopia che inseguiva da sempre continuava a sanguinare come i margini necessariamente aperti della propria ferita. Lo slancio mortale, così a lungo accarezzato e assecondato, era prossimo al suo compimento.