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Una serie noir per descrivere il crollo della Germania nazista e insieme i crimini che vi sono stati perpetrati. Con il ciclo di romanzi inaugurato da Berlino 1944 (Emons, pp. 392, euro 15,00), lo scrittore tedesco Herald Gilbers, già regista teatrale per più di 15 anni e a lungo giornalista culturale per la carta stampata e la tv, affronta le ultime fasi della Seconda guerra mondiale e la fine del Terzo Reich attraverso lo sguardo degli abitanti di Berlino e le indagini di un ex commissario di polizia, rimosso dall’incarico perché ebreo, che cerca di svelare di volta in volta, insieme ai responsabili di delitti efferati, il volto criminale dello Stato nazista. Vincitore del Premio Glauser, Berlino 1944 è seguito da I figli di Odino, di prossima pubblicazione sempre per i tipi di Emons e da Endzeit, appena uscito in Germania.

Lei ha raccontato la vita dei tedeschi negli ultimi anni di guerra attraverso una serie di romanzi noir, quanto ha a che fare questa scelta con la battaglia in nome della memoria?

Ritengo l’ultima fase del regime nazista particolarmente interessante: lo stato nazista di Hitler combatte disperatamente per la propria sopravvivenza mentre il suo intero fondamento ideologico crolla sotto i colpi della guerra. In questo senso il noir mi dà modo di mostrare al meglio i conflitti e le contraddizioni di quella fase: è la stessa società nazista ad essere analizzata come un crimine. Ma la prima ragione che mi ha mosso riguarda il fatto che come la maggior parte dei tedeschi so bene di non poter essere assolutamente certo che qualcuno dei miei parenti non sia stato coinvolto in crimini orribili o contribuito in qualche modo ad essi. L’epoca nazista è una macchia nera nella nostra storia nazionale, il peccato originale con cui le generazioni future hanno il dovere di continuare a misurarsi. Molte persone vogliono dimenticare quel passato o cercare di nascondere le tendenze nazionalistiche in Germania. I miei romanzi si propongono l’obiettivo contrario: proiettare la luce su quegli avvenimenti e spingere i lettori ad interrogarsi ancora.

La particolarità delle sue storie è rappresentata dal fatto che per indagare su una serie di delitti che vengono compiuti a Berlino a partire dalla primavera del 1944, le SS richiamano in servizio l’ex commissario della polizia criminale Richard Oppenheimer che si è salvato dalla deportazione perché sposato con un’«ariana» e vive in una judenhaus sotto stretto controllo. Una vicenda possibile all’epoca?

Direi di no, anche se esiste una piccolissima possibilità che un membro della Kripo allontanato perché ebreo fosse utilizzato per qualche indagine, visto che i suoi colleghi erano stati richiamati tutti al fronte. In ogni caso, se ho cercato di ricostruire nei minimi particolari il clima e la vita quotidiana dei berlinesi, basandomi su un accurato lavoro di ricostruzione storica, anche se l’elemento romanzesco ha avuto la meglio. Intanto perché mi ha consentito di fare di un commissario ebreo, una vittima dei nazisti, il testimone della fine di quel mondo; inoltre mi ha permesso di ritrarre gli effetti devastanti dei raid aerei contro i civili tedeschi senza mai far dimenticare ai lettori che la vera causa di quella guerra erano stati gli atti criminali del regime di Hitler.

Nel 1943 a Berlino vivevano ancora circa 27mila ebrei, di cui circa la metà erano costretti a lavorare per la fabbricazione di armi. Come Oppenheimer alcuni di loro si salveranno ancora per un po’ perché avevano un coniuge «ariano», anche se subivano gli abusi continui dal Sicherheitsdienst, il servizio di sicurezza delle SS. Inoltre ho scelto che il commissario si chiamasse proprio così perché Joseph Süss Oppenheimer è il nome del protagonista di uno dei più celebri film di propaganda nazista Süss l’ebreo, del 1940. Inoltre, per la sua figura mi sono poi ispirato in qualche modo al commissario Lohmann, protagonista di due film di Fritz Lang, M – Il mostro di Düsseldorf e Il testamento del dottor Mabuse, e ho immaginato che ne sarebbe stato di lui dopo l’ascesa al potere dei nazisti se fosse stato ebreo.

Nei suoi romanzi i deliri di onnipotenza del regime sono contrapposti ad una descrizione minuta della vita quotidiana dei berlinesi che si fa ogni giorno più dura. L’inchiesta criminale si trasforma in indagine sociale?

Per certi versi credo proprio di si. In Berlino 1944 compiano membri importanti dell’élite nazista come Goebbels e Speer, mentre lo stile di vita dei dignitari nazisti è messo a confronto con quello del resto della popolazione. La stessa architettura monumentale edificata dai nazisti si trasforma così in una metafora suggestiva: Hitler sognava la capitale del Reich millenario che dominava il mondo mentre ogni giorno la città si trasformava in un cumulo di rovine dove le persone sopravvivevano a stento. Perciò si potrebbe dire che Berlino e i suoi abitanti sono i principali protagonisti del romanzo. Del resto ho dedicato grande attenzione alla ricostruzione della vita che si conduceva in città in quella fase. Ho consultato diari e riviste dell’epoca, vecchi libri illustrati per cercare di capire come gli effetti dei bombardamenti avessero mutato l’aspetto di questo o quel quartiere.

Nel secondo romanzo della serie («I figli di Odino», che sarà pubblicato prossimamente nel nostro paese) si affrontra il tema delle correnti culturali neopagane e razziste che influenzarono il debutto del movimento nazista. Anche al tramonto del Terzo Reich queste tendenze erano così forti?

Nel corso del mio lavoro di studio su quel periodo della storia tedesca mi sono reso conto che negli ultimi anni di guerra il Terzo Reich è stato caratterizzato da una fortissima irrazionalità. A fronte della evidente disfatta militare, la «fede nella vittoria» era invocata di continuo, quasi potesse far cambiare il corso degli eventi: si riteneva addirittura che un simile atteggiamento potesse imporre una svolta inaspettata al conflitto. Riemergevano le tracce di quei «culti ariani», fortemente antisemiti, che si volevano eredi, spesso in modo del tutto inventato, di una vaga tradizione religiosa germanica pre-cristiana. Lo stesso Hitler aveva vissuto per un certo periodo in quella città ed era stato vicino a tali movimenti, mentre molti futuri dirigenti nazisti, come Heinrich Himmler e Rudolf Hess, erano interessati a quei temi. Alfred Rosenberg aveva anche provato a formulare le idee di questa «religione del sangue» nella sua opera Il mito del XX secolo.

Col tempo, il tentativo di trovare spiegazioni scientifiche per sostenere la presunta suremazia della razza ariana avrebbe però rimpiazzato i riferimenti all’ariosofia. Hitler non poteva certo accettare di aver avuto in qualche modo dei precursori. Gli echi di questi temi sarebbero tornati però a riecheggiare quando apparve chiaro che la guerra si sarebbe chiusa con una sconfitta del Terzo Reich.

Nei giorni scorsi un esponente del partito di estrema destra «Alternative für Deutschland», Björn Hocke, in un raduno a Dresda ha criticato il senso di colpa dei tedeschi per la loro storia nazionale, sostenendo che i tedeschi sono «le uniche persone in tutto il mondo capaci di piantare un monumento alla vergogna nel cuore della loro capitale», in riferimento al memoriale della Shoah di Berlino. Visto che l’AfD è dato in forte crescita, quanto pensa siano diffuse tali posizioni negazioniste presso la popolazione?

Il discorso di Hocke mi ha ricordato un po’ una inutile seduta psicoanalitica di fronte ad un pubblico. Non condivide il ricordo della Shoah? È un suo problema. Non ha alcuna possibilità di veder rimosso il monumento di Berlino. A mio parere la reazione del pubblico è stata più preoccupante. Non solo erano d’accordo con lui, ma c’è chi ha definito «traditori del popolo» gli avversari politici: la stessa terminologia utilizzata per giustificare la diffusa persecuzione degli oppositori durante il regime nazista. Anche se non si possono liquidare tutti i sostenitori di quel partito come dei semplici nazisti camuffati, visto che molti lo votano per esprimere una sorta di protesta poltica, è esattamente la reazione che si aspettava Hocke visto che a Dresda le tendenze di destra sono notoriamente molto forti. Ma il problema è più ampio visto che oggi anche attraverso i media digitali e la rete i pregiudizi si diffondono in modo enorme ed è certo che anche tali posizioni negazioniste sono presenti e destinate a crescere.