Se c’è una parola che può assurgere al rango di epitome di un’intera epoca, quella bisecolare in cui si sono scontrati liberalismo e socialismo (1789-1989), tale parola risponde al nome di «libertà». Un’operazione sensata, però, a patto che non si tenda a riferirsi a questa parola come a un qualcosa di vuoto e sterile, scollegato dalle determinazioni concrete del vivere storico e sociale e quindi metafisico, fino a ridurla a un feticcio buono per la retorica più vieta.

La condizione è quella di non considerare l’uomo libero e la libertà come un qualcosa di dato a priori, stabilito ex-ante in termini trascendentali o moralistici, bensì come un ideale regolativo che sta davanti all’individuo, per la cui conquista occorre operare all’interno di un contesto (quello politico-sociale) caratterizzato dal conflitto e regolato da precisi rapporti di forza.
È il dato sostanziale che sfugge al pur accurato e stimolante libro di Corrado Ocone (Il liberalismo del Novecento. Da Croce a Berlin, Rubbettino, pp. 270, euro 18), specialmente perché l’autore cede alla tentazione fatale di leggere il liberalismo come un fenomeno unitario e dal percorso lineare lungo quel crinale scosceso e accidentato rappresentato dalla storia.
Non si spiega altrimenti il fatto che l’autore, per esempio, metta sullo stesso piano senza problematizzarli (e compararli) due pensatori difformi come Hayek e Popper: il primo, vero e proprio profeta dell’attuale epoca neo-liberista, riteneva per esempio il sistema del welfare state keynesiano una pericolosa caduta dell’occidente verso la «via della schiavitù», in quanto connotato da caratteristiche molto simili a quelle del socialismo vero e proprio.

Il secondo, invece, pur mettendo in guardia dai rischi di un’ipertrofia del ruolo dello stato (definito «male necessario»), affermava espressamente che «non bisogna permettere al potere economico di dominare su quello politico e anzi, se necessario, il potere economico deve essere combattuto e posto sotto il controllo di quello politico».
Siamo evidentemente di fronte a due liberalismi: quello hayekiano, ispirato al liberalismo ottocentesco classico di matrice conservatrice (tramontato con lo scoppio della I guerra mondiale e risultato sconfitto fino agli anni Settanta del Novecento, salvo poi ritornare in auge nel nostro tempo).

Dall’altra parte quello di Popper, che partendo da un giudizio assai più benevolo su Marx e sull’utilità del materialismo storico (a differenza di quanto proclama il mainstream dell’esegesi popperiana), è stato disposto a farsi contaminare dialetticamente dalle istanze della tradizione politica avversa, fino a creare quel «sistema misto» (di libero mercato e intervento statale) che ha caratterizzato il «trentennio d’oro» (1945-1975) delle democrazie occidentali.
Da una parte, insomma, un’idea di libertà concepita a mo’ di dato predefinito e consustanziale all’uomo (salvo patenti clausole di esclusione su base razziale, censitaria e sessuale fino a buona parte del XX secolo); dall’altra un’idea di libertà che deve essere conquistata giorno per giorno sul terreno aspro e contraddittorio del conflitto sociale, un conflitto regolato da rapporti di forza spesso sbilanciati e quindi in grado di negare diritti e consentire privilegi.

La prima idea di libertà rimane chiusa nel regno incontaminato della teoria, in una sorta di iperuranio metafisico dal quale le è persino vietato di incidere sulla realtà e di intrecciarsi dialetticamente con essa.
Non sorprende che Ocone fondi il suo libro su questo assunto. Egli, infatti, raffinato studioso (e allievo) di Croce, parte dal presupposto del maestro secondo cui «non si inculcherà mai abbastanza la verità che l’azione politica non si deduce da alcuna teoria».

Ciò non vuol dire tanto che siamo agli antipodi della filosofia della praxis (il dato non sorprende), quanto che ci ritroviamo catapultati indietro di due secoli, ossia a un Hegel non «capovolto» e mal digerito da Croce al punto da fargli concepire un’idea di libertà del tutto incapace di incidere sul reale (forse che origina da qui la storica incapacità del liberalismo italiano di uscire dall’elitarismo ininfluente a livello di grandi masse?).
A fronte di questo «peccato originale», non sorprende che Ocone chiami in causa autori diversi fra loro sostanzialmente per giustificare il «liberalismo senza teoria» dei giorni nostri.
Che a conti fatti si presenta con il volto di un liberismo sprezzante verso qualunque idea intenda contrastare il suo monopolio del non-pensiero unico.