«Direi che quello che mi ha sempre interessato nel corso della vita sono le espressioni dell’uomo, il fatto che l’uomo sia un animale che può camuffarsi, che può mascherarsi, che può darsi una forma». Così Jean Starobinski, intervistato da Guido Ferrari nel 1986, mettendoci in mano un prezioso filo rosso per percorrere la sua straordinaria opera saggistica. Il problema della maschera lo interessa già da studente – Starobinski è nato a Ginevra nel 1920 – quando si confronta con i nazismi e i fascismi, che offrono al disagio delle masse una «coscienza mascherata»: le si trae dall’anonimato dell’impotenza, dal nulla e dalla nausea in cui sono sprofondate, affascinadole con il mito di partecipare a una totalità. Invece di vivere le apparenze in quanto tali, senza accusare né patire la loro equivocità, l’uomo preferisce «portare sul proprio presente certe potenti immagini costruite al punto di fuga del suo desiderio e del suo sogno», alle quali non impunemente si affida.
Il rapporto tra apparire ed essere, tra la maschera e il volto, sarà il fuoco dei grandi saggi su Rousseau, La trasparenza e l’ostacolo (1957), L’occhio vivente (1961), Accusare e sedurre (2012): Rousseau è tutto immerso nel gioco delle maschere, è il primo a vivere in maniera esemplare il patto dell’Io con il linguaggio, che è il luogo dove il pathos dell’esistenza, nella doppia dimensione dell’accusa e della celebrazione, si esprime come opera. Attraverso l’analisi della scrittura dei «malinconici», come La Rochefoucauld e Kierkegaard – «Il malinconico vive in un tempo che non è il tempo degli altri, un tempo rallentato, un tempo sul quale la sua malattia proietta un’ombra, ed è lui che crede di non vedere intorno a sé altro che maschere» – attraverso Montaigne, capace invece di dare fiducia alla percezione immediata e alla ricchezza del mondo, il discorso si articola e si complica, fino a costruire qualcosa come una critica e un’etica delle apparenze. Le apparenze sensibili, oltre che come oggetto di pratiche di «smascheramento» – è la grande impresa dell’Illuminismo – costituiscono nella loro ambiguità il luogo stesso della comunicazione tra gli uomini. L’esperienza dell’arte è sempre, per Starobinski, una rinnovata relazione con l’immediatezza dei fenomeni, si sviluppa tra la percezione sensoriale della vita e l’estetica della composizione dell’opera.
A cura di Martin Rueff
La ricchezza, davvero inesauribile, del suo discorso critico trova ora una magnifica testimonianza in La Beauté du monde La littérature et les arts (Gallimard, pp. 1340 e 53 documenti, € 30,00). Il volume, curato con competenza e passione da Martin Rueff, che insegna all’Univesità di Ginevra, che conosce a fondo l’opera di Starobinski e che è in perfetta sintonia con lo spirito che la anima, ci offre decine e decine di saggi non ancora raccolti in volume. Sono saggi anche antichi, come quelli, intensissimi, su Kafka (pubblicati tra il 1943 e il 1950), dove, più che la colpa e l’angoscia viene in primo piano la lotta: «nessuno, più di Kafka, ha lottato contro il demoniaco che lo dilaniava». Ben quindici saggi – un vero libro nel libro – sono dedicati all’amatissimo Baudelaire. Con continui, sottili rimandi Starobinski raccoglie e vince la sfida di «leggere le Fleurs du mal come un testo continuo»: qui l’orgoglio di un «tragico clown» apre l’orrore della dissoluzione e del Nulla, attraverso la percezione ipersensibile della realtà – il transitorio, il fuggitivo, il contingente che è il Moderno – a una profondità ulteriore, allo splendore dell’arte e dell’assoluto. Accanto a Baudelaire compaiono anche Ronsard – còlto nello spazio delle sue giornate, tra la natura, i libri e gli amici, libero e proteico – André Chenier, Mallarmé, Valéry e una scelta costellazione di poeti contemporanei: René Char, Pierre Jean Jouve – anche per i romanzi Le monde désert, Hécate, Vagadu, La scène capitale… – Philippe Jaccottet, Yves Bonnefoy, Paul Celan, ascoltato in una sconvolgente lettura di suoi testi.
Guardi, Tiepolo, Füssli
L’ultima parte del volume è dedicata alla pittura e alla musica. Per la pittura incontriamo Guardi, Tiepolo – Il Giandomenico Tiepolo dei favolosi Pulcinella –, il Rococo – «chi penetra nel suo spazio sa perfettamente che tutto è simulacro» –, Goya – «nel 1789, un pittore, ostile all’astrazione idealizzata, coltiva la sua predilezione appassionata per il colore e per l’ombra» –, il neomanierista Füssli: «la violenza domina i suoi qudri, la notte, il delitto, la seduzione erotica, la curiosità del male … dal passato epico, il luogo della sua origine, l’opera precipita nel passato onirico». Per la musica sono in primo piano Monteverdi – Poppea, insieme ad Alcina, come archetipo delle incantatrici del Moderno: Manon, Carmen, Kundry, Salomé, Lulu… – e Mozart, con Le nozze di Figaro, Il flauto magico, Così fan tutte, nel segno della «inverosimiglianza e della libertà», con Don Giovanni, «sublimemente inumano», in un intenso dialogo con la lettura di Pierre Jean Jouve: «il desiderio, il tempo, la colpa, la statua, la morte…».
Nell’importante Introduzione (pp. 17-221) e nella Postafazione (pp. 1299-1331) Rueff ci offre un saggio biografico ricco di testimonianze e corredato di un dossier di immagini – la prima figura che incontriamo è quella del padre, Aron Starobinski, un ebreo polacco illuminista e cosmopolita che arriva a Ginevra nel 1913, a vent’anni –, ma soprattutto si impegna, rievocando persone e accadimenti, in una ricostruzione del contesto culturale che segna la vita del nostro critico e in un’ analisi, lucidissima e partecipe, di tutta la sua opera. Un’opera che non è pensabile fuori dalla cosiddetta «scuola di Ginevra», a cui Starobinski, ginevrino lui stesso, si sente profondamente legato. Sono maestri come Marcel Raymond, Jean Rousset, Albert Béguin, Jean Paul Richard, e, più vicini a noi, Michel Jeanneret e Laurent Jenny, che collaborano al volume di cui si parla.
Un’accorata rievocazione
Alla figura di Marcel Raymond, davanti a cui Starobinski, nel 1957, sostiene la sua tesi su Rousseau – sarà il volume La trasparenza e l’ostacolo –, è dedicato un magnifico ritratto: tutta la sua opera mira a ridurre la distanza tra parola poetica e parole critica, e tra queste e la vita: «perché la poesia è legata intimamente all’esistenza e deve avere il suo posto nei gesti di ogni giorno, negli incontri, nelle amicizie, nei carteggi». Questa accorata rievocazione è una sorta di autoritratto, perché, anche per Starobinski, poesia, critica ed esistenza sono una cosa sola. Si comprende così perché la sua forma privilegiata sia il saggio: «Nello spazio del saggio il mio punto di partenza è quello di afferrare, di intuire una questione in cui è implicata la nostra vita». E ancora: «Io non sono solipsista, e penso dentro la società. Credo che una vera ricerca non cominci che quando ci si sente in compagnia». Il saggio permette una «relazione critica», coinvolge la soggettività dell’interprete e insieme l’ascolto del lettore di fronte alla presenza, irrinunciabile, del testo, con la sua ancora sconosciuta alterità. È questo un tratto che lo avvicina, più che allo strutturalismo e alla semiotica, alla stilistica di Leo Spitzer, conosciuto e frequentato a Baltimora e poi sempre uno dei suoi interlocutori privilegiati. L’ermeneutica di Starobinski, è questa la sua forza e il suo fascino, non è pensabile al di fuori di questa istanza etica, è tutta nella ardua e lieve generosità con cui si pone davanti all’opera, per interrogarla a partire da noi. Questo la rende capace di mobilitare le apparenze, le maschere, le ambiguità del sensibile, per arrivare a cogliere, nel tessuto delle opere, il cuore delle cose e «la bellezza del mondo» – secondo il bel titolo scelto da Rueff – per «darci un sapere più vivo e più gaio».