Me lo ricordo ancora Callisto alle anteprime (via dei Villini, la Safa Palatina, via Margutta, luoghi familiari e agorà della critica militante) arrivare sempre tra i primi, alto, un po’ dinoccolato, dispensare brevi saluti a destra e a manca con la mano benedicente, pochi cinguettii indistinti con qualche collega e poi posizionarsi, spesso al centro della fila, con le mani giunte che martellavano il labbro superiore in attesa che si facesse buio in sala e si rinnovasse la magia.

E poi, in ordine sparso, gli altri ‘officianti’. Ecco Tullio Kezich con l’inseparabile Lalla a passo sostenuto con indosso un berretto Sherlock Holmes e le falde perennemente a coprire le orecchie, e salutare rapidamente, anche lui, qualche collega, poi guardarsi intorno alla ricerca di me e posizionarsi una fila avanti delegando la moglie al rituale: «Aldo, sei in macchina?» (e continuare poi la discussione sulla strada di casa).

E, ancora, Renzo Fegatelli, l’allora vice di Tullio, alto ,magro, con i suoi occhi verdi un Paul Newman in sedicesimo se non fosse stato per la sua magrezza, che ricevette l’imprimatur da Tullio per diventare titolare di rubrica quando questi trasmigrò al Corriere della Sera e giorni dopo, al posto della sua, cominciammo a leggere – va’ a sapere – la firma di una sconosciuta Irene Bignardi e Renzo, certo stimatissimo, divenne di colpo un novello Lucien Chardon. E come non ricordare Renato Ghiotto, il mitico Asmodeo, troppo presto andato, che dopo una proiezione alla PEA di un film di Avati (mi accorgo scrivendo che stiamo parlando di una vita fa) imbastì lì per lì il pezzo, confrontandosi con noi colleghi(ad onor del vero io mi mantenevo un po’ defilato aguzzando le orecchie) e definendo Pupi il Truffaut italiano e quello – vallo un po’ a capire!-, una volta uscito l’articolo se ne risentì sdegnato.

E lo ricordo ancora Callisto, sempre alla PEA, dopo la proiezione postuma di Salò, in un silenzio agghiacciante, dire con voce rotta: «Oggi siamo tutti più soli e più poveri». E, per definire la stura dei ricordi, all’anteprima di Professione: reporter. Uno spettatore incauto – ignoro chi fosse – appellandolo con un gridato: « Maestro!» e quello si altera perché detesta che gli si rivolga in quel modo e Callisto che si volta di scatto alla loro volta con un baritonale: «Ohibò!» e tutti a voltarsi con lui nell’imbarazzo generale.
Oggi Callisto Cosulich ha doppiato il capo dei 90 anni, continua ad essere una fucina di progetti e conserva una memoria impressionante. Questa intervista è solo una parte delle due lunghissime chiacchierate durante le quali, chiudendo a tratti gli occhi, mi è sembrato di sentir parlare Mario Soldati con la sua inconfondibile erre arrotata e l’andamento vocale che sfociava in un gorgoglìo a tratti indistinto.
Nella descrizione di un epos marinaro, a bordo della corazzata che lo introduceva alla guerra, nel racconto delle vicissitudini e delle avventure di un giovane a tratti immune dall’orrore della morte che pure gli camminava a fianco, in lui rivive ‘Ndrja Cambrìa di Horcynus Orca, un picaro delle acque che con accenti salgariani è approdato in una improbabile Cariddi dove si mescola finzione e realtà, teatro, tragedia ed una esilarante naturalezza.

Vorrei che mi raccontassi una bellissima storia, di quando eri imbarcato come ufficiale sull’incrociatore EUGENIO di SAVOIA e approntasti, a bordo, una sorta di cine-club.

Una piccola premessa. Vivevo a Trieste, in una realtà completamente ‘periferica’.Sono nato con il fascismo e a noi ventenni non era dato misurarci con la bellezza della democrazia, non si riusciva a pensare cosa fosse la vita senza il fascismo e questa realtà periferica accentuava questa sorta di disancoramento. La realtà culturale era costituita -ma è solo un esempio- da quello stronzo di Coppola che su Il Popolo d’Italia pubblicava amenità del genere:”Mentre i nostri soldati combattono in Russia lo Struzzo dell’Einaudi pubblica GUERRA E PACE scritto con giudaica pignoleria di forestiero”. Ti confesso che trovavo più interessante Savinio. Ciò detto avrei dovuto attendere il richiamo della mia classe ma anticipai i tempi. In un primo tempo pensai di entrare in Aeronautica ma poi optai per la Marina. Andai a fare a Livorno un corso per ufficiale di complemento di 4 mesi (siamo nel ’42)e un mese a Pola per l’addestramento pratico. Il primo imbarco avvenne il 1° gennaio del ’43. Toccai molti porti; a Napoli sono stato un mese – la nave era in riparazione a Castellammare di Stabia- ;poi di stanza a Taranto. I ricordi vanno in due direzioni. La prima è quella,diciamo così,della qualità della vita a bordo. Stavamo bene. Ricordo mangiate di pasta al forno sopraffina alle 4 del mattino, la consuetudine amicale con i marinai,con i marinai che facevano magnifici sandali di corda e quando chiesi di farne un paio per me si meravigliarono del mio 42 e1/2 credendo che gli ufficiali avessero piedini di fata, e mi sovviene adesso “la barca dei sogni”. Sai cos’era la barca dei sogni? Ti spiego. Ci si era accorti,ai piani alti, che per il divieto di ospitare signorine a bordo,aumentava nella truppa la ‘frociaggine’ e allora si corse ai ripari. All’arabo che approvvigionava la nave di ogni ben di Dio chiedemmo se con la stessa barca poteva portare qualche signorina. E allora i marinai scendevano a turno, salutavano la bandiera, si facevano una scopatina e tornavano su. Ricorda ancora(ride) l’anatema del cappellano militare -Don Castelletti- :”Così si disonora la bandiera!” Poi c’era la guerra in tutta la sua evidente atrocità. Ho visto galleggiare,dopo una battaglia, cadaveri a frotte. Eppure, nonostante tutto, avevamo un’idea della morte stranissima, come se fosse lontana da noi. Gli uomini cadevano sotto i colpi come se fosse stato un tiro al piccione ma, forse per via dell’età, era come se non avessimo paura, come se non ci riguardasse. Noi, fra l’altro, eravamo molto gasati perché la nostra nave aveva vinto la battaglia di Pantelleria con l’Ammiraglio Da Zara. Mi sono dilungato un po’ e vengo alla tua domanda. Quando eravamo fermi a Sampierdarena avevo con me un ufficiale che organizzava le proiezioni, mentre l’operatore era un sergente di complemento. Non ci crederai ma potevamo vedere i film americani! Io gli davo dei consigli sulla scelta delle pellicole. Poi, pochi giorni prima dell’armistizio, lui si dovette defilare per un impegno e mi chiese di sostituirlo. Non potrò mai dimenticare quella notte, il giorno dell’armistizio. Durante la proiezione il cielo era segnato dai proiettili traccianti e i marinai a terra che esultavano perché era finito tutto. Tutto mentre scorrevano le immagini di “You can’t take it with you(L’eterna illusione)” di Frank Capra. Da quel momento il cinema non mi ha più abbandonato.

A parte il film di Capra, ricordi altri titoli? E alle proiezioni seguiva un dibattito?

Vanno distinti due periodi: prima e dopo l’armistizio. Prima dell’ 8 settembre del ’43, quando l’Eugenio di Savoia era ormeggiato nel golfo di La Spezia, ci rifornivamo alle agenzie di distribuzione genovesi, dove erano giacenti le pellicole hollywoodiane in circolazione sino al giorno della nostra dichiarazione di guerra agli USA;vale a dire quelle delle Major, che avevano accettato le condizioni del Monopolio Film Esteri istituito dal governo fascista a partire dal 4 settembre del ’38. Dopo l’armistizio facemmo capo alle agenzie baresi; cioè da quando, finiti su una mina che aveva aperto una falla all’altezza delle macchine, eravamo stati rimorchiati a Taranto in attesa di riparare il guasto nel cantiere del porto pugliese. Prima dell’armistizio alternavamo pellicole americane, concesse come ‘prede di guerra’, quali “Passione- Il ragazzo d’oro” di Mamoulian,”Rebecca,la prima moglie” di Hitchcock, ”Avventurieri dell’aria” di Hawks, con le cosiddette ‘commedie bianche’ come in seguito furono definite le coeve pellicole di genere del cinema italiano(i film di Mattoli, Mastrocinque,Malasomma e compagnia bella). L’abissale scarto di qualità tra le prime e le seconde era evidente, sebbene le ‘commedie bianche’ avessero sostenitori,almeno fra gli ufficiali, grazie alle attrici che in quegli anni stavano emergendo (Alida Valli in primo luogo e poi Lilia Silvi, Irasema Dilian,Chiaretta Gelli, Paola Veneroni, Carla Del Poggio prima dell’incontro con Lattuada che la trasformò).No,la nave non ospitava un cine-club come ventilavi tu. Erano semplici proiezioni offerte all’equipaggio alle quali non seguiva alcun dibattito.

Parlami più estesamente della tua passione,del ‘vizio’ del cinema.

Direi che a monte ci sono i cine-guf, è lì che ho cominciato a vedere film importanti, è lì che mi sono fatto la prima infarinata. E sono diventato di sinistra guardando il cinema. In uno dei miei viaggi a Roma poi avrei visto “Ladri di biciclette” che mi avrebbe ovviamente entusiasmato. Una volta accadde che un esercente mi chiedesse di presentare “Amleto”. Mi rifiutai quando venni a sapere che a pochi metri da noi, in una sala dello stesso esercente,”Ladri di biciclette” veniva usato come tappabuchi. “Ladri di biciclette”capisci? un capolavoro assoluto! La mia avventura cineclubbistica, perdonami il neologismo,nasce da questo gesto,da questo mio rifiuto.

Sei stato testimone di una rinascita…

Beh, quella cinematografia rompeva gli schemi, come lo aveva fatto il grande cinema sovietico muto, come lo aveva fatto il realismo poetico francese degli Anni ’30, e come lo avrebbe fatto successivamente la nouvelle-vague.

Che film hai visto recentemente?

Debbo confessare che negli ultimi tempi i film più belli che ho visto sono girati da donne. Penso a “Il figlio dell’altra” dell’ebrea francese Lorraine Lévy, a “La guerra è dichiarata” di Valérie Donzelli. Ma si parla di donne e della loro emancipazione anche in un film iraniano magnifico, “Off-side”. A Panahi, il regista, è stato interdetto di girare film per vent’anni! E Panahi ha messo da sempre al centro della sua speculazione la condizione della donna, vedi “Lo specchio”, vedi “Il cerchio”. Mi pare sia ancora in galera.

Hai scritto la sceneggiatura di un noto film di fantascienza.

Sì,è vero. Mi chiamò Lucisano(io lavoravo allora con Auriemma) per sceneggiare un film che sarebbe poi stato diretto da Bava. C’era a monte una sceneggiatura americana che sembrava non funzionare. Era della partita anche Alberto Bevilacqua col quale ebbi un buon rapporto. “Terrore nello spazio” si intitolava il film e in una graduatoria di film di fantascienza figura fra i primi 10. Ti confesso che qualche soldino dalla SIAE continuo ancora a riceverlo.

Molte le curiosità: la musica di Gino Marinuzzi che si rifa’ a quella di Dimitri Tiomkin per “La cosa da un altro mondo” e i punti di contatto incredibili con “Alien” di Ridley Scott.

Alla musica di Marinuzzi mi ci fai pensare tu ma il parallelo con “Alien” è evidentissimo. Scott non cita apertamente il nostro film ma le analogie fra le due pellicole sono inconfutabili, è evidente che il suo è una sorta di remake sontuoso.

Dovevi laurearti in ingegneria…

Ho fatto quello che mi piaceva,il piacere del cinema. Mi mancavano pochi esami alla laurea ma ho preferito seguire un’altra ispirazione. Pensa,se mi fossi laureato sarei rimasto a Trieste e oggi non saremmo qui a parlarne.

Sei tu l’inventore delle famose ‘palle’ su “Paese Sera”, quelle voglio dire che davano un giudizio di merito sul film da vedere ?

No, sono mie le indicazioni di lettura. Sono io che ho inventato le diciture DA NON MANCARE, DA VEDERE. E,allo stesso tempo, ho sempre evitato un’indicazione negativa:non ho mai sconsigliato di vedere quel film o quel tal altro. Le ‘palle’ sono successive ma non ne ricordo la paternità.

Che rapporto avevi con Tullio Kezich?

Un ottimo rapporto a dire il vero. Per quanto Tullio fosse molto diverso da me,lui ha saputo gestirsi meglio ed aveva una capacità narrativa che io non possiedo,era uno scrittore insomma.

Eravate migliori voi critici che avete aperto la strada, o sono migliori gli attuali?

Sarebbe sbagliato,improprio,dire ‘peggiore’ o ‘migliore’, oggi è tutto diverso. Oggi un critico,un giornalista dispone di un medium,internet, che ai miei tempi non esisteva e,per le generali, ha meno categorie ideologiche. Leggilo come ti pare,se è meglio o peggio io non so dire.

Che mi dici del tuo rapporto con Visconti?

Con Visconti avevo un rapporto quanto mai amichevole. Noi dei circoli del cinema lo consideravamo ‘uno dei nostri’. Ci davamo del tu,tanto per dirtene una,laddove si faceva dare del lei anche dai collaboratori più stretti.

E con Lizzani?

Inizialmente fu lo stesso che intrattenevo con Visconti, in seguito divenne più profondo. Sebbene fossimo coetanei lo consideravo il mio fratello maggiore. Tra di noi era nata una grande amicizia. Sono rimasto sconvolto alla notizia del suo suicidio, che mi ha preso letteralmente in contropiede radicandomi nel convincimento che,alla fine, la vecchiaia non può essere quel periodo di serenità che alcuni sostengono.

So che per un lungo periodo convivesti insieme a Giraldi e Gillo Pontecorvo.

Gillo lo avevo conosciuto da “Menghi”, la famosa trattoria dei pittori ubicata all’inizio di via Flaminia, a Roma. Mi offrì una camera del suo superattico di via Massaciuccoli dove,su mio suggerimento,venne ad abitare anche Franco Giraldi che era stato mio collaboratore a Trieste quando dirigevo la Sezione Spettacolo del Circolo della Cultura e delle Arti, fondato nell’immediato dopoguerra e divenuto il più importante centro culturale della città. C’era molta goliardia ed era,il nostro,il tipico menage di tre scapoloni. Le pareti di quell’appartamento ne avrebbero cose da raccontare ma io,per pudore o mera riservatezza,non te ne parlerò neppure sotto tortura.

Parliamo di critica militante. Quali sono o dovrebbero essere le categorie che informano la stesura di una critica cinematografica?

Confesso di essere un po’ allergico a termini quale ‘militante’. Epperò il dizionario Gabrielli, alla voce ‘critica militante’,dice:”…che partecipa in modo diretto e attivo alla discussione e alla problematica artistica del proprio tempo”. Venendo al caso della critica cinematografica diremo che il critico cinematografico deve sempre avere presente che i lungometraggi di finzione, molto più dei documentari di attualità, esprimono l’aria del tempo in cui sono stati realizzati.

Nel bagaglio culturale di Svevo c’è il marxismo,poi il darwinismo. Irrompe Freud ma in linea diretta:se non ricordo male era stato a Vienna a farsi curare. Mi racconti la tua Trieste? Una volta,parlandone,la definisti ‘isterica’…

Trieste è una città molto civile,molto diversa dal resto d’Italia;è proiettata verso l’Est e questo cambia le prospettive. L’ho ritrovata ‘isterica’ quando sono tornato ad abitarci nel dopoguerra e vi ho trovato ancora i segni del breve periodo in cui la città ebbe a subire l’occupazione della Jugoslavia di Tito. La “cortina di ferro” attraversava la città e divideva il centro dal quartiere operaio di San Giacomo dove abitavano gli aderenti al Partito Comunista della Venezia Giulia,che gestiva anche il Cinema del Mare, sito vicino al porto commerciale, nel cuore stesso della Trieste borghese, la quale però lo evitava con cura dicendo che non voleva dare nemmeno un centesimo agli ‘sciavi’. Ci andavo solo io perché la sala presentava i film sovietici provenienti dalla Jugoslavia, film ignorati nel resto d’Italia. Non vederli per i motivi che ho appena detto mi avrebbe trasformato in uno di quei mariti che si tagliano gli attributi per fare un torto alla moglie. La situazione si modificò in modo reale quando Stalin definì la dittatura di Tito un “governo turco”. In quel momento la borghesia triestina divenne a suo modo ‘staliniana’. D’altra parte, ripensandoci,sono stato eccessivo quando ho definito Trieste ‘isterica’. Se penso alle sue traversie post-belliche (l’amministrazione militare anglo-americana temette all’acutizzarsi della guerra fredda che Trieste divenisse la Danzica della Terza Guerra Mondiale) il minimo che le poteva capitare era una botta d’isterismo. In altre regioni italiane si sarebbero conteggiati i morti.

Hai nostalgia della tua città?

No,io ho sempre ragionato in termini di futuro. Tant’è vero che Tullio mi diceva sempre “ma guarda che te dovrà morire anca ti”. Me lo diceva perché io non facevo altro che fare progetti e del passato non parlavo mai.

I Super8 di Moretti che portasti a Cannes che sorte ebbero?

Suggerii semplicemente ad un collega francese che si occupava del Festival di Cannes di far vedere quelle pellicole e Jacob non esitò a metterli fuori concorso. Una volta si facevano i film di denuncia,Moretti ne ha fatti due in cui prevedeva addirittura il futuro,preveggenti: mi riferisco, ben lo saprai, a IL CAIMANO e ad HABEMUS PAPAM. Sarà supponente, risulterà antipatico a molti ma è una grande forza. E,sempre a proposito dei Super8, pochi sanno come andarono le cose. Sua madre,insegnante,era la professoressa di mio figlio Oscar. Un giorno vado a parlarle per mio figlio e lei mi chiede se avessi voglia di visionare dei film in Super8 che aveva fatto il figlio…

Che mi dici di Vittorio De Sica? Quale fu la vostra frequentazione? Matrimonio a parte, ricordi un aneddoto in particolare?

Vittorio De Sica sotto certi aspetti era per me di famiglia avendo io sposato Lucia Rissone, nipote di Giuditta, moglie di Vittorio. Lo vedevo a quasi tutte le feste comandate,a pranzo o a cena. Un episodio particolare…beh, è stato lui il primo a mettermi sull’avviso dell’importanza di Eastwood, che egli aveva utilizzato nell’episodio da lui diretto nel film “Le streghe”, prodotto da De Laurentiis in onore di sua moglie Silvana Mangano: “Un uomo straordinario, di grande talento -ebbe a dire in quel frangente-,che ci riserverà molte sorprese”. De Sica lo aveva spogliato di tutte le caratteristiche che gli aveva cucito addosso Sergio Leone negli ‘spaghetti-western’, trasformandolo in un marito incolore , ripreso nella sua intimità,addirittura in mutande. Eastwood regista deve essersi ricordato di De Sica quando,interrompendo la serie dei suoi western, girò il bellissimo e sfortunato “Honkytonk man” dove interpretava un cantante malato di tubercolosi che si recava a Nashville accompagnato da un ragazzo in cui vedeva il suo erede.

Tu hai vissuto una stagione irripetibile per il cinema. Oggi gli epigoni sono alla stessa stregua dei maestri? O dobbiamo aspettare 20 anni per stabilirlo?

‘Epigoni’,’maestri’, mi sembrano attributi troppo alti per la materia che stiamo trattando. La situazione è profondamente cambiata,certo,ma non dimenticare che quando ho cominciato ad occuparmi di cinema io si discuteva ancora se il cinema avesse o meno il diritto di definirsi un’arte.

Ricordo vagamente una tua polemica con il Vaticano, più precisamente con il Centro Cattolico Cinematografico che aveva bollato con un ESCLUSO PER TUTTI “Lampi sul Messico” di Ejzenštejn ma promosse “Vecchia guardia” di Blasetti. Mi rinfreschi la memoria?

Il C.C.C. è stato sempre attento a contestualizzare i suoi giudizi, adeguandoli all’aria che tirava. E’ stato fascista senza se e senza ma durante la seconda metà del ventennio mussoliniano; è divenuto clerico-fascista negli anni del dopoguerra:ora si è adeguato ai tempi. Basta leggere “La Rivista del Cinematografo”, ottimo mensile che ospita articoli scritti da critici d’ogni tendenza e non mi risulta che il C.C.C. abbia sollevato obiezioni. Non ricordo di aver polemizzato sui giudizi che il Centro diede a suo tempo su “Vecchia guardia” e “Lampi sul Messico”. Ricordo invece la polemica che intavolai sull’ “escluso per tutti” con cui aveva bollato l’innocente “Una domenica d’agosto” convinto che la pigna con la quale verso la fine si feriva la giovane protagonista del film di Emmer, fosse la metafora della sua deflorazione.

Quando uscì non ti fece una grossa impressione.

Hai ragione. Ma rivedendolo, a distanza di anni,mi è piaciuto di più: non ha nulla da spartire col “neorealismo rosa” che s’impose nella seconda metà degli Anni Cinquanta.

Ricordo ancora -andò in onda nel ’70- il tuo VIAGGIO NEL CINEMA GIAPPONESE. Me ne parli?

Il mio impegno con la TV era iniziato attraverso la rubrica sportiva che Maurizio Barendson teneva il lunedì sera sul secondo programma e che andava a scontrarsi

col film, di solito molto popolare, trasmesso dal primo . Barendson, con il quale avevo collaborato alla stesura di un copione, mi chiese d’inventare qualcosa su “cinema e sport”. Gli preparai degli estratti di film di finzione, ciascuno dei quali incentrato su una disciplina diversa. Il mio metodo piacque alla RAI sì che,poco tempo dopo, chiese a me -sebbene fossi un collaboratore esterno- di preparare qualcosa del genere sul cinema giapponese, avendo essa acquistato molte pellicole provenienti dal Sol Levante, alcune delle quali inedite in Italia. Realizzai cinque programmi. Il primo sui film di Kurosawa, intitolandolo “Il messaggio dell’Imperatore”; il secondo sulle “donne di Mizoguchi; il terzo sui film di guerra; il quarto sulla descrizione del Giappone attuale;il quinto sulla nouvelle-vague nipponica. Successivamente applicai lo stesso metodo per i film di Ozu, le cui pellicole non erano mai giunte in Italia. A questo punto la RAI mi chiese di presentare altri cicli così come stava facendo con altri miei colleghi. Accettai, ma a patto di fare delle “postfazioni” al posto delle “prefazioni” a mezzo busto come usavano i miei colleghi; delle “postfazioni” realizzate con lo stesso metodo,che avevo usato in precedenza, senza la mia presenza in campo. L’idea ebbe successo tant’è vero che alla “postfazione” -secondo quanto mi comunicò la RAI- l’audience non prendeva a calare. Va anche detto che oggi il metodo non sarebbe più realizzabile. Oggi verrebbe a costare troppo. Le società di distribuzione non sono più disposte a cedere gratuitamente sequenze di pellicole diverse da quella trasmessa.

Qual’è il tuo giudizio su Aristarco?

Aristarco ebbe una grande importanza quale creatore e direttore di riviste. Cercò meritoriamente di sfuggire al cappio dell’ortodossia staliniana che negli anni Cinquanta e oltre inquinava la critica e la saggistica di sinistra. A tale scopo si affidò alle teorie estetiche dell’ultimo Lukács incentrate sulla ricerca del “tipico” secondo l’ottica del realismo. Una ricerca che lo portò spesso a un altro tipo di ortodossia, riconoscibile nell’ultimo periodo della sua attività; una ortodossia facilmente scremabile, che non danneggia più di tanto la sua ultima produzione saggistica.

Che rapporti avesti con Petri?

Inizialmente Petri fu un collaboratore prezioso nella conduzione della Federazione Italiana dei Circoli del Cinema, la F.I.C.C., di cui ero il Segretario Generale. Un giorno mi chiese, non senza imbarazzo, se poteva raggiungere Beppe De Santis in Abruzzo dove stava girando “Uomini e lupi”. Gli dissi che sarebbe stato un pazzo se avesse rifiutato l’offerta. Lui mi fu riconoscente e io soddisfatto, avendo favorito la carriera di uno dei più dotati debuttanti dei primi fecondi anni Sessanta.

Scado nello scontato:con Rossellini?

Il mio rapporto con Rossellini ebbe inizio negli anni Cinquanta e divenne sempre più intenso negli anni in cui scrivevo su “Paese Sera”. Andavamo spesso a pranzo insieme; parlavamo di tutto fuorché di cinema. Condividevo il suo modo di vivere, forse dovuto a certe affinità di classe. Ma rendendomi perfettamente conto che lui era a suo modo un genio e che io potevo essere per lui poco più di un lustrascarpe. La sua morte improvvisa, proprio mentre stava scrivendo per “Paese Sera” un articolo sul Festival di Cannes che aveva seguito in qualità di Presidente della Giuria, fu per me un duro colpo. Conservo tuttora il suo articolo rimasto incompiuto, di cui mi aveva anticipato il finale.

Rossellini a parte, chi hai frequentato dell’ambiente?

La mia posizione di Segretario del Consiglio Direttivo dell’A.N.A.C. mi ha portato a conoscere e frequentare una montagna di intellettuali. Ti faccio solo qualche nome: Camerini, Blasetti, Damiani, Solinas per non parlare di De Sica che è stato addirittura testimone delle mie nozze avendo io sposato,come ti ho già detto, Lucia figlia di Checco e nipote di Giuditta Rissone.

Che tipo di festival organizzasti nel ’45 al Quirino di Roma?

In quell’anno nulla dal momento che ero ancora imbarcato. L’organizzazione del festival al quale probabilmente ti riferisci è da postdatare a dopo la Liberazione. Cinquant’anni dopo ,nello stesso teatro, organizzai una cosa simile con lo stesso ordine dei film già presentati. I giudizi espressi dai critici dell’epoca, che avevano parlato di “terza via” a proposito di “Les enfants du paradis” e di “Ivan il Terribile” trascurando l’importanza di “Roma città aperta”, furono in seguito molto contestati. Tuttavia la giuria di studenti universitari, che allestii per l’occasione, alla conferenza-stampa di chiusura,con grande stupore dei critici presenti, diedero gli stessi giudizi dei critici del tempo: primo premio a “Les enfants du Paradis”, premio ad Ejzenštejn per la regia di “Ivan il Terribile”. Quanto a “Roma città aperta” venne premiata solo Anna Magnani, come attrice deuteragonista. Così poco? Chiesero i presenti. “Non potevamo premiare Rossellini per i suoi film futuri” risposero.

Voglio parlarti di Monicelli. Mi pare fosse proprio Tullio a coniare la definizione di ‘neorealismo rosa’. Mutuata,certo, da Marotta che usò,parlando de LE RAGAZZE DI SAN FREDIANO,l’espressione “realismo idilliaco,roseo”. Monicelli viene considerato l’inventore della “commedia all’italiana” e che io considero invece un epigono del neorealismo. Come la vedi?

Monicelli,ne “I soliti ignoti”, aprì nel ’58 la stagione della commedia di costume chiudendola nel ’77 con “Un borghese piccolo piccolo” che non è una commedia bensì una tragedia, perfettamente adeguata ai tempi che l’Italia stava vivendo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Capisco perfettamente la tua riflessione ma il neorealismo ha limiti perimetrali precisi; erano neorealisti Rossellini e De Sica,per esempio.

Siamo alla chiusa. Come rivivi ogni volta l’immagine di tuo padre che si butta in acqua per salvarti, ti salva ma lui non ce la fa?

La rivivo come una favola, con immagini che nulla hanno di reale. Mi sono tornate in mente vedendo un film cinese, “La guerra dei fiori rossi”, tratto non a caso da un romanzo autobiografico e diretto da un regista, Zhang Yuan, che si è ispirato pure lui alla propria autobiografia.

 

Ringrazio sentitamente: le EUT, Edizioni Università di Trieste;

Elisa Grando;

Alessandro Mezzena.