Forse non sarà così disperato come i film del «cinema nero» jugoslavo degli anni sessanta, ma qualcosa di Quit Staring at My Plate (Non guardarmi nel piatto) di Hana Jusic (Croazia, classe ’83) ce li ricorda, un destino apparentemente senza via d’uscita, un attraversamento di spazi desolati, una protagonista che concentra dentro di sé senza poterlo esprimere il malessere. Mirijana (Mia Petricevic), è la testimone dallo sguardo implacabile di un rapporto familiare dai contorni feroci quanto oscuri. I dettagli si accumulano costruendo una tensione che rende il racconto compatto nel suo disagio costante, con brusche sterzate che non lo rendono mai prevedibile. Il piatto di cui si parla nel titolo potrebbe alludere al desco familiare che compare più volte all’inizio del film, in cui è evidente soltanto l’astio che coinvolge un padre padrone, un fratello con qualche ritardo mentale, una madre rude e la figlia Mijriana con il suo sguardo da rapace, aquila solitaria nella desolazione di un angusto appartamento.

Si aggiungono via via altri luoghi e personaggi che cominciano e delineare un tessuto sociale in apprensione, vicini da tenere a bada, l’ospedale dove si fa largo sempre più pressante la possibilità del licenziamento al minimo errore – alcuni ospedali sono dello stato, altri privati, si sottolinea – e dove la ragazza lavora come tecnico di laboratorio. Una prima esplosione, un cambio di rotta si produce con l’ictus che colpisce il padre e che lascia nel dubbio se sia una liberazione vederlo infine privato della parola offensiva o della mano pesante, costretto a letto dalla paralisi. Mirijana prende in mano l’andamento della famiglia, unica ad avere un lavoro.

Persino le vie di fuga – una gita al mare, l’incontro con una vivace compagna di scuola – lasciano poco spazio alla speranza di cambiamento, la sessualità è vissuta da lei come autodistruzione. Si attende per tutto il tempo una via d’uscita, prigionieri di un racconto che si intuisce sta per evolvere verso una soluzione che possa appagare la fiducia nella forza dell’individuo nei confronti del destino e delle circostanze, delle tare familiari e delle eredità della storia. Infatti questa soluzione si potrà trovare proprio in un finale inaspettato che ci fa velocemente ricapitolare anni di dopoguerra (e sono ormai passati almeno vent’anni), di ricostruzione, di eventi che hanno contaminato l’intera società e le nuove generazioni.

Ventiquattro anni dichiara infatti di avere la protagonista e quella guerra non l’ha neanche vissuta, ma sul suo fragile corpo e sulla sua mente sembra di rivederla, come su quella dei genitori, del fratello e delle persone con cui lavora. Ci vuole tanto tempo, come dopo un ictus, per ricominciare a vivere in una società pacificata.

Ci sembra importante questo film d’esordio (concorre al premio De Laurentiis) di una cineasta della nuova generazione che riesce a mettere insieme tante diverse situazioni della società e comportamenti individuali e compone un quadro complessivo senza sconti, unito alla necessità di prendere in mano la situazione in prima persona a dispetto di drammi che non si riescono neanche a percepire. Hana Jusic, laureata in letteratura comparata e studi all’Accademia d’Arte drammatica di Zagabria ha realizzato già parecchi documentari presentati e premiati in festival internazionali e scritto la sceneggiatura di un film di successo Misterious Boy di Drazen Zarkovic. Ha scelto per interpretare la sua protagonista una brava attrice esordiente e per il padre il veterano Zlatko Buric, attore croato che vive in Danimarca e ne ha preso la cittadinanza, interprete di film di Roland Emmerich e Nicolas Refn e che è appena stato nella produzione danese di Full Monty.