Stavolta la diplomazia del pallone che spesso ha riavvicinato Paesi in rottura prolungata si siede al tavolo in ritardo. A Cuba la presenza della nazionale statunitense di calcio – in campo domani all’Avana contro i caraibici, terza volta nella storia – è stata preceduta da passaggi simbolo nello storico riavvicinamento.

Prima, Barack Obama che percorreva la scalinata dall’Air Force One sul suolo cubano, lo scorso marzo, 88 anni dopo l’ultima presenza sull’isola di un presidente yankee. E durante la sua visita si giocava un’amichevole di baseball tra i Tampa Bay Blue Rays (Major League Baseball) e la Nazionale cubana con mazze e berretto (che resta lo sport preferito nazionale, seguito dalla pallavolo), in tribuna Raúl Castro al fianco di Obama. Ma un mese prima all’Avana atterrava Papa Francesco, con l’abbraccio al patriarca della Chiesa ortodossa russa Kirill, incrocio atteso dallo scisma del 1054. E pochi giorni dopo Obama – che nei giorni scorsi ha nominato un ambasciatore statunitense a Cuba, 50 anni dopo, altro segnale dell’asse rimesso in piedi tra Washington e l’isola – i cubani hanno seguito con lo sguardo avanti-indietro sul palco per due ore e spiccioli Mick Jagger e le mossette di Keith Richards, 250 mila spettatori non paganti caricati sul magico carrozzone dei Rolling Stones nella Ciudad Deportiva della capitale, un evento paragonato al concerto di Roger Waters sul Muro, a Berlino, 26 anni fa. E se nei mesi precedenti la Mlb e la Nba avevano messo il cappello sull’isola, con dei clinic, partitelle-esibizione con stelle del passato che facevano ammattire i ragazzini, in ogni caso Cuba-Stati uniti di calcio è più di una partita, è uno storico frammento di politica applicata allo sport. O viceversa.

Nonostante i primi passi del disgelo, del muro che si sgretola tra i due Paesi, dopo mezzo secolo di distanza e inimicizia, siano stati compiuti, di sicuro non ancora metabolizzati sia dagli americani che dai cubani. In verità negli Stati uniti che si preparano alla volata elettorale verso l’8 novembre non c’è molto spazio – almeno sui media – per il peso simbolico di questa partita, Cuba è solo il mezzo per gli affondi di Hillary Clinton da qualche giorno accusa Donald Trump di aver violato l’embargo per i suoi affari, 68 mila dollari investiti dal tycoon dai capelli platinati sull’isola nel 1988 – lo scoop ribattezzato «Castro Connection» è della rivista Newsweek -, un rompicapo per Trump che rischia di perdere pacchi di voti nell’elettorato dei cubani- americani della Florida, uno degli swing state della contesa elettorale.

Invece la sfida sul campo merita, il primo precedente calcistico all’Avana è targato 1947, Cuba-Stati Uniti 5-2, mentre otto anni fa – con successo americano, rete del mito del soccer Clint Dempsey, da poche settimane tornato al calcio giocato dopo il ritiro – c’era partita ancora all’Avana per le qualificazioni ai mondiali sudafricani. E l’anno scorso, a Baltimora, si tornava sull’erba nella Gold Cup, 6-0 per gli statunitensi con quattro reti di Dempsey e qualificazione ai quarti di finale, con i cubani che avrebbero tanto messo da parte il pallone per giocarsela a baseball.

Mentre qualche calciatore cubano nei mesi scorsi, per la precisione, Maikel Reyes e Abel Martinez, decideva di lasciare l’isola per finire in Messico, in seconda categoria, al Cruz Azul per giocarsi la carta del professionismo. Due onesti caratteristi del pallone via per un anno, in apparenza liturgia osservata da tanti precari del pallone in giro per il mondo ma mai nessun calciatore era partito da Cuba per altri Paesi, mentre ora altri sono in trattative con club di Panama, El Salvador, Honduras, Giamaica. Una decisa sterzata che segue la decisione presa dal governo cubano tre anni fa, ovvero l’autorizzazione per i contratti all’estero per i giocatori di baseball che veniva estesa agli atleti di altri sport, con l’80% dello stipendio in tasca, il resto in tasse allo Stato. In poche parole, il ritorno al professionismo che veniva piazzato in panchina nel 1959, dopo la Revolución e l’ascesa al potere di Fidel Castro.