Nessun colpevole, dunque tutti innocenti. Nessun colpevole dunque tutti colpevoli. Nel processo per la morte di Stefano Cucchi ha vinto lo spirito di corpo, quello stesso spirito di corpo che da 25 anni impedisce al nostro Paese di introdurre il crimine di tortura nel codice penale. Uno spirito di corpo che si estende verticalmente dal basso verso l’alto, che si muove orizzontalmente tra divise e camici, che colpisce mortalmente le persone e le istituzioni.

Così accade che per quasi tre decenni il Parlamento si è sottratto a un obbligo internazionale, in quanto condizionato dai vertici della sicurezza. In questo modo hanno tutti insieme avallato l’idea che la violenza istituzionale non è una questione di mele marce bensì una scelta di sistema.

I giudici della Corte d’Appello di Roma probabilmente motiveranno l’assoluzione di poliziotti e medici sostenendo che le prove non erano sufficienti. Supponiamo che sia così. Una motivazione di questo tipo vuol dire che le prove non sono state cercate, o sono state tenute nascoste.

Nei casi di tortura vi sono poliziotti che devono indagare su colleghi. Lo spirito di corpo ha vinto. Tutti assolti e dunque tutti colpevoli. I primo colpevoli sono coloro che in questi lunghi anni hanno remato contro la criminalizzazione della tortura. Ne abbiamo sentite e viste di tutti i colori. Da chi sosteneva la tesi che bisogna torturare almeno due volte per commettere il delitto a chi ha impedito la previsione del reato pur di difendere i pm che indagano. Tutte volgarità per l’appunto.

Proprio ieri il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite nelle quasi 200 raccomandazioni fatte all’Italia ha ribadito la necessità di punire i torturatori. Da qualche giorno è ripresa la discussione alla Camera di un testo di legge approvato la scorsa primavera in Senato. Un testo per molti versi inadeguato e insoddisfacente. È stato di recente audito anche il capo della Polizia, Alessandro Pansa il quale ha detto testualmente che «siamo favorevoli, ma il legislatore valuti il rischio che la fase applicativa, se non tipizza meglio la fattispecie, provochi denunce strumentali contro le forze dell’ordine che potrebbero demotivarle. Nessuna difesa corporativa da parte mia».

Ha fatto bene la presidente della Commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti a sentire il Capo della Polizia in modo che tutti dicano in modo trasparente quali sono le proprie idee. Alessandro Pansa ha richiamato la parola corporazione, parola che rimanda direttamente allo spirito di corpo.

Va rotta la catena corporativa. Spetta alle forze politiche farlo, con nettezza. Va introdotto il principio della responsabilità individuale. In mancanza del crimine di tortura si perpetua l’impunità che riporta a responsabilità collettive gravi incompatibili con una democrazia compiuta.

Sono trascorsi poco più di cinque anni dalla morte di Stefano Cucchi.

In mancanza del delitto di tortura le imputazioni nei confronti di poliziotti e medici non possono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di prescrizione sono molto più brevi. Ora il processo rischia la mannaia dell’estinzione.

Detto questo noi tutti sappiamo che non è alla giustizia che dobbiamo affidare la ricostruzione della verità storica. La giustizia è per sua natura fallace. In questo caso però la verità processuale ha deciso di voltarsi in modo tragico dall’altra parte rispetto alla verità storica.

Molte volte abbiamo chiesto al Parlamento un sussulto di dignità. Lo chiediamo ancora. Chiediamo che sia approvata subito una legge contro la tortura in piena coerenza con la definizione delle Nazioni Unite. Chiediamo che ciò avvenga nel nome di Ilaria e dei genitori di Stefano, combattenti per la libertà e la giustizia.