A Michael Cunningham piace scrivere storie a partire da altre storie. Lo ha fatto ad esempio con Mrs. Dalloway di Virginia Woolf nella sua opera più celebre, The Hours, e con Giorni memorabili, generato da Foglie d’erba di Whitman. Con La regina delle nevi (traduzione di Andrea Silvestri, Bompiani, pp. 285, euro 18,00) è partito da un’opera di Hans Christian Andersen e ha dato al suo più recente romanzo lo stesso titolo della fiaba, in cui si racconta di come per un sortilegio uno specchio fa sparire tutto il bene e rende le creature insensibili e crudeli e di come due bambini riescano a spezzarlo e a ritrovare la tenerezza perduta. La storia di Cunningham è incentrata sul processo di maturazione di tre personaggi, i due fratelli, Barrett e Tyler, e Beth, la compagna di Tyler. Barrett è un omosessuale che fa il commesso in un negozio di abbigliamento; Tyler è un musicista tossicodipendente in cerca di notorietà che vorrebbe scrivere la sua più bella canzone per la sua compagna, Beth, pressoché sfinita da un cancro giunto alla fase terminale.
Il romanzo prende avvio nel novembre 2004, nell’America di Bush e della guerra in Iraq, e si chiude nel novembre del 2008, dunque alle soglie dell’èra Obama. A mettere in moto la narrazione c’è l’apparizione di una strana luce che in una sera nevosa Barrett, affranto da un abbandono, vede nel cielo del Central Park. Questa luce sembra rivolgere la propria attenzione verso l’uomo, la cui esistenza da quel momento subisce una graduale trasformazione. Il motivo dell’apparizione non è nuovo in Cunningham e anche in questo caso segnala la percezione di una misteriosa continuità tra la vita e la morte e l’acquisizione di un grado di consapevolezza maggiore nei confronti di un mondo che rivela strati di complessità via via più difficili da cogliere.
In questo testo si ritrovano situazioni e motivi familiari al lettore di Cunningham. Ci sono due fratelli morbosamente vincolati l’uno all’altro, e in questo caso c’è addirittura un terzo fratello, morto da piccolo e diventato il fratello fantasma; c’è Beth, che ama Tyler, ma è legatissima anche a Barrett, e che prima della morte gode di un’inspiegabile sospensione e remissione della malattia. Beth rappresenta Persefone, colei che si trova a varcare la soglia della morte; dunque ancora una volta il triangolo di una famiglia non tradizionale, con due fratelli e una donna; ci sono quindi l’omosessualità, la casualità degli incontri e degli addii, l’uscita dalla dimensione spazio-temporale ordinaria. Non mancano alcuni topoi dell’autore: la bellezza maschile decantata come incarnazione marmorea, la misteriosa continuità tra i vestiti e le persone che li indossano, o il pencolarsi dai davanzali di personaggi che in tutta tranquillità affermano di non volersi suicidare. Ancora una volta i rapporti, familiari e sentimentali, sono fondati sulla morte. In questo caso una triplice morte: la madre dei due fratelli (scomparsa tragicamente), il fratello fantasma e poi Beth. Solo la condivisione di persone e cose scomparse rende possibile agli esseri umani di intrecciare affetti davvero profondi come se solo alla presenza di ciò che è stato e non è più potesse avvenire il miracolo dell’amore. E ciò avverrà grazie alla presenza di Liz, amica di Beth e nuovo elemento del gruppo. Osservata da questa prospettiva l’opera di Cunningham assume l’aspetto di una scena di perpetua devastazione, al cui interno si aggirano esseri fantasmatici rimasti ostinatamente nella zona liminare tra la vita e la morte e che continuano a esigere un tributo di devozione e memoria. Proprio in quella zona la letteratura va a collocarsi perché solo lì è dato cogliere l’unità sostanziale di tutte le cose, quell’unità che molti cercano di raggiungere con le droghe, come Tyler, o con l’amore, come Barrett.
I personaggi sono persone del tutto comuni, privi di qualsiasi aura di eccezionalità, e le loro esistenze sono edificate con ambizioni fallite. Personaggi flaubertiani (Barrett, come l’autore stesso, è alla sesta lettura di Madame Bovary) che però nel corso della narrazione acquistano in autonomia e determinazione. La storia si svolge in un contesto quasi dickensiano, Bushwick, a Brooklyn, uno dei quartieri più degradati di New York, nel quale le abitazioni, anguste, sono state costruite al risparmio, le strade sono dissestate e i bidoni traboccano di spazzatura che l’amministrazione non si cura di raccogliere. La povertà è data per scontata in questo ambiente e il narratore pur non facendone un tema esplicito non manca di marcarne la gravità; ad esempio, quando i due fratelli decidono di cambiare casa e depongono la loro vecchia mobilia sul marciapiede, in poche ore tutto viene prelevato e portato via dai passanti, quietamente, come se fosse la cosa più naturale e necessaria da fare in quei casi.
In questo romanzo trova conferma ancora una volta che Cunningham è interessato a rappresentare un livello della realtà che di norma sfugge. In un suo saggio, egli aveva osservato che la Woolf scrive nella piena consapevolezza che il mondo è troppo grande e misterioso per la narrativa, e che la letteratura non può non portare lo stigma dell’ambiguità e del caos. Con La regina delle nevi abbiamo una storia costruita in modo da indurre a innalzare lo sguardo verso l’alto, verso un punto da cui cogliere più ampiamente quello che accade e aumentare il grado di consapevolezza rispetto alla realtà individuale, sociale e politica. Qui vedere la luce (in inglese l’espressione implica il conseguimento di una visione più chiara) significa vedere qualcosa che assomiglia all’occhio di Dio, essere guardati da una cosa luminosa sospesa nel cielo, ma soprattutto scorgere al di là dello scintillio dei fiocchi di neve (o del brillio che la società dei consumi produce) quanto precarie e gravose siano le condizioni di vita della gente comune. Dunque Cunningham ha inteso raccontare la natura dei sentimenti, ma anche le condizioni dell’America alla vigilia del secondo mandato a George Bush, al di là delle convenzioni e delle mistificazioni.
Ma il romanzo sembra intento a dialogare con un altro grande classico, il Moby Dick. La luce vista da Barrett si presenta come un’entità dotata di consapevolezza e l’uomo si sente percepito, «come immaginava una balena avrebbe percepito la presenza di un nuotatore, con una curiosità grave, regale e senza ombra di timore». Grazie a questa luce si rende percepibile che il mondo «è inanimato ma non inconsapevole» e i morti semplicemente si congiungono con quest’entità senziente ma priva di individualità. Perciò il confronto con l’immane luce ripresenta una situazione analoga al vis-à-vis decisivo di Moby Dick, quando Achab e la balena si guardano, e dunque ancora una volta c’è il duello finale tra una creatura umana e una molto più potente, e anche qui è la creatura umana a chiudere la partita grazie all’anelito che la spinge a oltrepassare i propri limiti. Se i tre personaggi, ciascuno nella sua situazione, raggiungono uno stadio superiore, ciò è determinato dalla consapevolezza che nell’essere umano si verifica la transustanziazione, quando l’entità inanimata si fonde con una creatura umana dotata di umani sentimenti. Questa fusione, difficile da ‘vedere’ e da intendere, avviene grazie alla figura femminile, «la Dea» che oltrepassa la soglia della terrestrità, quando muore stroncata da un fulmine (la madre), quando le sue ceneri vengono sparse sull’acqua (Beth), o più semplicemente quando prende un aereo (Liz). Il dio burlone di cui qui si ipotizza l’esistenza è ora percepito e osservato da coloro che ne hanno smascherato il gioco.