Approfittando delle vacanze natalizie, forse Mariano Rajoy dovrebbe fare un viaggio a Barcellona per chiedere consiglio a Artur Mas. Perché se a Madrid non sono abituati alle negoziazioni per la formazione di un governo, a Barcellona Mas viene da tre mesi di tira e molla con gli anticapitalisti della Cup per convincerli a votarlo come presidente catalano.

Rispetto a Rajoy, Mas ha un grande pregio: è un vero camaleonte della politica. Dopo aver fatto secchi tre partiti in sei mesi (prima CiU – la storica alleanza di Convergència con Unió, che se ne andò sbattendo la porta quando Mas si spostò su posizioni indipendentiste; poi la stessa Convergència, fondendosi in Junts pel Sí con i nemici storici di Esquerra Republicana per le catalane di settembre; e infine l’alleanza Junts pel Sí, presentandosi separatamente da Esquerra per le politiche di domenica con il nome di Democràcia i Llibertat), ora è pronto a tutto pur di rimanere alla guida della Generalitat de Catalunya.

Ieri scadeva l’ultimatum che la Cup e Junts pel Sí si erano dati per trovare un accordo di governo. In teoria avrebbero tempo fino al 9 gennaio, poi scattano le elezioni. Ma la Cup ha fissato da tempo per domenica prossima un’assemblea in cui prendere la decisione definitiva sul da farsi. Mas ha trascinato il suo recalcitrante partito a scendere a patti su tutto, meno che sul suo nome, che invece era praticamente l’unico punto su cui la Cup ha deciso finora di non transigere. Ieri Junts pel Sí ha presentato un documento definitivo di 63 pagine alla Cup, il programma elettorale di una rivoluzione prossima ventura che manda all’aria cinque anni di politiche diametralmente opposte portate avanti dai governi di Artur Mas.

Un piano di shock sociale da 270 milioni contro la povertà energetica e quella infantile, fondi per mense infantili, aiuti sociali, obbligo di copertura pubblica per acqua, luce e gas delle famiglie più povere, obbligo alle banche di cedere gli appartamenti vuoti, affitti sociali, salario minimo di mille euro, aiuti per le persone in situazione di dipendenza, aumento della partita per l’educazione con diminuzione del numero di studenti per aula, diminuzione delle liste d’attesa sanitarie, 62 misure per «scollegarsi» da Madrid e una assemblea costituente per redigere la nuova costituzione della Repubblica catalana. Persino il blocco del controverso progetto del Bcn World, il macrocomplesso di casinò, su cui Mas aveva puntato tutto, e del consorzio sanitario di Lleida, la cui privatizzazione aveva scatenato furiose proteste sociali. Junts pel Sí è disposta a ingoiare l’indigesto programma (per loro), con un’unica condizione: Mas deve essere presidente.

Con tre forti vicepresidenti con amplissime deleghe, anche su questo Mas ha ceduto. Ma l’Artur deve essere president, pur se «di transizione». Dopo i risultati di domenica la Cup aveva fatto sapere che gli elettori davano loro ragione nella loro opposizione a un candidato il cui partito era arrivato quarto in Catalogna. Ma Esquerra, secondo partito domenica (primo degli indipendentisti) non ha (ancora) fatto da sponda, e formalmente difende Mas. Certamente quel che resta di Convergència teme nuove elezioni a marzo, dopo aver visto i numeri di domenica.

Nel 2011, con Unió, CiU superava il milione di voti, domenica DL ha di poco superato il mezzo milione.

«Non è l’accordo con la Cup, è la proposta di accordo che facciamo all’assemblea della Cup», ha puntualizzato Raül Romeva, ex rossoverde e capolista di Junts pel Sí, uno dei tre vicepresidenti in pectore. E tutto si giocherà domenica a Girona, quando i militanti della Cup decideranno se buttare a mare il succulento accordo, o se ingoiare il rospo Mas. Il timore di Mas è che a marzo possa nascere un accordo fra la Cup, Esquerra e il movimento di Ada Colau. E il «rischio» di un tripartito di sinistra è molto concreto.