Decine di migliaia di persone in fuga dallo Stato Islamico verso il confine turco. Una scena che si ripete, dopo i sunniti di Mosul, gli yazidi del Sinjar, i cristiani di Qaraqosh. Ora tocca ai siriani curdi dei villaggi a nord, nella zona della città di Kobani, circondata dai jihadisti: sarebbero 60mila, secondo le autorità turche, i curdi entrati negli ultimi giorni nel paese dopo l’occupazione di 60 comunità siriane da parte dei miliziani dell’Isis.

Ankara aveva aperto le frontiere venerdì, su pressione dei curdi turchi che avevano protestato per il mancato sostegno ai rifugiati arrivati dalla Siria. Otto i valichi di ingresso: «Nessun paese al mondo può prendere 45mila profughi in una notte sola», ha detto ieri il vicepremier turco Kurtulmus, che ha poi corretto i dati: sono 15mila in più, fuggiti con mezzi di fortuna, sulla schiena di un asino o a piedi, con niente con sé, senza cibo né acqua. Sono fuggiti mentre i miliziani jihadisti aprivano il fuoco e ora sono ospitati da parenti o accampati in scuole ed edifici pubblici.

Così la Turchia viene trascinata in un conflitto che ha in parte aiutato ad incendiare nei tre anni precedenti, chiudendo un occhio sul facile passaggio di armi e miliziani dentro la Siria strangolata dalla guerra civile, sperando di veder cadere il nemico Assad. Assad non è caduto e l’Ankara di Erdogan è stata costretta a fare un passo indietro: dopo aver aderito alla coalizione dei volenterosi sponsorizzata da Stati uniti e Nato, la Turchia ha precisato che avrebbe concesso le sue basi solo per operazioni di soccorso e non per fini militari. Il timore, avevano detto i vertici politici, era quello di ritorsioni contro i 49 ostaggi dell’Isis, catturati all’inizio di giugno nel consolato turco di Mosul.

Ieri, però, è giunta la liberazione: i 49 sono stati riportati in Turchia. Molto più attivi sono i miliziani curdi: dopo l’appello del Pkk che chiamava a sostenere i fratelli curdi a Kobani, i primi 300 combattenti sono entrati ieri in Siria per unirsi alle file dell’Ypg, le Unità di protezione popolare curde. «Kobani sta affrontando il più barbaro attacco della sua storia», ha commentato il capo dell’Ypg, impegnato in violenti scontri con i miliziani di al-Baghdadi.

Ora chiedono armi ai generosi paesi occidentali: «L’Isis ha armi americane altamente sofisticate. Ne abbiamo bisogno anche noi», ha detto un portavoce dell’Ypg facendo riferimento agli scontri di questi giorni, durante i quali i jihadisti hanno usato carri armati e artiglieria pesante.

Una guerra che si fa ogni giorno più settaria, dalle operazioni di salvataggio Usa dirette solo ad alcune minoranze all’armamento dei soli peshmerga curdi da parte dei governi occidentali, fino alle battaglie individuali di gruppi etnici di minoranza. La conseguenza è visibile: dove non è l’Isis a colpire, sono le milizie sciite o i gruppi estremisti sunniti, con le prime che dettano legge nei villaggi strappati allo Stato Islamico in Iraq e i secondi che insanguinano Baghdad e il sud sciita di attentati e esplosioni.

Dall’altra parte della frontiera, in Siria, il Fronte al-Nusra – gruppo qaedista che ha stretto con l’Isis un patto di non aggressione –ha ucciso venerdì uno dei dieci soldati libanesi catturati durante l’assalto ad Arsal, il mese scorso, e ieri ha minacciato di giustiziarne un secondo se Beirut non accetterà lo scambio di prigionieri proposto.

La risposta di Washington è la ripresa dei finanziamento dei gruppi moderati anti-Assad, altra benzina sul fuoco della guerra civile che fa gli interessi dei regimi sunniti arabi, il cui obiettivo da anni è la caduta del governo alawita a Damasco.

Pochi giorni fa il segretario della Difesa Usa Hagel aveva confermato l’esistenza di un piano del Commando Centrale per operazioni in Siria contro l’Isis, ma ieri il presidente Obama ha frenato dicendo di non avere calendari alla mano: potrebbero passare mesi o settimane prima che il primo raid colpisca la Siria.

La misura della confusione che pare regnare nelle stanze dei bottoni Usa l’ha data la dichiarazione di venerdì del segretario di Stato Kerry, durante la riunione del Consiglio di Sicurezza Onu. A sorpresa, dopo aver definito inappropriata la presenza di Teheran nella coalizione internazionale, Kerry ha aperto alla partecipazione dell’Iran: potrebbe essere d’aiuto ad «estirpare» lo Stato Islamico. «C’è un ruolo da giocare per ogni paese del mondo, compreso l’Iran», ha detto Kerry dopo che nei giorni scorsi – a margine del negoziato sul nucleare – rappresentanti iraniani e statunitensi hanno affrontato la questione Isis.

Ma intanto, ieri migliaia di iracheni hanno mandato un chiaro messaggio a Washington: no ad una nuova occupazione, hanno gridato, mentre bruciavano bandiere Usa e inneggiavano al leader religioso Moqdata al-Sadr.