È stata un’asta allettante quella che si è vista mercoledì, per i disegni di antichi maestri, da Christie’s a New York. Fra i lotti spiccava un disegno di Pieter Paul Rubens, tratto da una composizione di Giulio Romano per un arazzo. Scipione, tormentato, è seduto su un carro. Incoronato da Vittorie alate e con il seno scoperto, che hanno le facce ancora più angosciate del conquistatore. Volando in cielo le matrone raggiungono, con un ambaradan di allori e di fiaccole, una Minerva che sta davanti a una porta monumentale. Il carro è guidato da un cocchiere che sembra un incapace, perché i cavalli sono troppo scalmanati, e la folla di paesani è sbatacchiata dappertutto dalla furia equina del trionfo. Una lupa e un Tevere stanno lì a ricordarci, naturalmente, che siamo a Roma. Tutto questo, Rubens lo copiava da uno di quegli artisti che nel secolo precedente erano diventati dei miti, e che oggi sono fin troppo poco noti. Giulio Romano aveva sovvertito la parabola di Raffaello, rimediando alla sua purezza con abbondanti dosi di angoscia, che oggi crediamo di stampo molto moderno. Giulio, fra il 1528 e il 1532, aveva mandato tre bozzetti da Mantova a Bruxelles, affinché una prestigiosa manifattura realizzasse prima i cartoni in scala uno a uno, e poi gli arazzi. Nel 1532, un mercante di Bruxelles portò tre arazzi a Parigi, li mostrò al re di Francia, Francesco I. Al re piacquero e la commissione partì. Ventidue arazzi con storie che illustravano tredici gesta e nove trionfi di quel generale romano, Scipione l’Africano, che più di tutti si era distinto per aver combattuto una vita contro i Cartaginesi. Purtroppo gli arazzi furono distrutti nel 1797, perché il direttore generale della Guardia rivoluzionaria decise di recuperare l’oro e la seta che adornavano i tessuti. Erano tempi duri. Ma al Louvre restano ancora oggi quelle composizioni della bottega di Giulio, che circolavano fra Parigi e Bruxelles tramite Primaticcio – un artista che si sarebbe guadagnato la sua fiducia – perché si capisse cosa Giulio avesse ideato. A inizio Seicento, Rubens entrò in possesso di uno di questi disegni. Copiò in ogni dettaglio il trionfo di Giulio, ma aggiunse di suo tocchi di acquerello marrone, di gesso bianco e grigio, e brani di vera e propria pittura a olio. Il foglio è una piccola sbornia di colore, fastoso e drammatico come se Rubens non fosse mai in grado di pensare su scala umana. Un modo monumentale di appropriarsi dell’arte antica, che dichiara fedeltà alla vertigine del barocco. Ma anche e soprattutto un modo di appropriarsi di Giulio, di riprendere letteralmente quel tormento e affibbiarlo alle espressioni dei potenti. Non erano più i sovrani stranieri rinascimentali, che si erano divertiti a giocare con un’Italia in rovina, i committenti di Rubens. Erano semmai vescovi impegnati nel difendere il giansenismo, contro gli interdetti papali, come Anthonius Triest, probabile primo proprietario del disegno in questione. Il disegno poi forse passa nella collezione di un incisore di Anversa, Cornelius Vermeulen, e poi finisce a Parigi, dove lo vede il più grande collezionista e conoscitore di disegni del Settecento europeo, Pierre-Jean Mariette, al quale la Morgan Library ha dedicato una mostra l’anno scorso. «Une intelligence dont il n’y avait que lui (Rubens) qui en fût capable», così scrive Mariette, in una nota a margine del catalogo della vendita dove vede passare il disegno, a inizio Settecento. Da allora, negli studi e nelle mostre, questo disegno ha goduto di un continuo apprezzamento. E la scorsa settimana è stato battuto alla migliore offerta: per un milione e mezzo di dollari.