Ogni trama ha il suo mcguffin, molte ne contano più d’uno, altre pretenderebbero di rifiutare che il loro impianto razionale ammetta simili ordigni; ma un mcguffin è per sua natura insidioso, tanto che alcuni ne incontrano qualche esemplare nella vita e però, semplicemente, non lo riconoscono perché non sanno cosa sia. Per Alfred Hitchcock, che ne inventò l’esistenza, il mcguffin era tutto e niente, una sorta di leva capace di azionare la dinamica dell’intreccio, e dunque qualcosa di cruciale per i personaggi del film, ma, al tempo stesso, una entità priva di significato per lo spettatore. Nel libro intervista di Francois Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, lo si spiega con questa storiella: un uomo chiede al passeggero accanto a lui cosa sia il pacco che ha messo sul portabagagli. E quello: «ah, è un mcguffin!» «Vale a dire?» chiede il primo. E l’altro: «È un marchingegno che serve per prendere i leoni sulle montagne Adirondack». «Ma – protesta il passeggero – non ci sono leoni sulle Adirondack». «Bene – dice l’altro – allora non è un mcguffin!» Morale della favola, vai a sapere cosa è un mcguffin.

Ora, c’è una curiosa parentela tra la famosa esortazione di Mallarmé a dipingere non l’oggetto bensì l’effetto che produce, e la definizione di un mcguffin, una cosa la cui natura fattuale è così irrilevante da restare sconosciuta, mentre ciò che importa è appunto l’effetto che provoca nei personaggi. Entrambe le definizioni vengono riprese da Enrique Vila-Matas nel suo ultimo romanzo titolato Kassel non invita alla logica (traduzione di Elena Liverani, cui avrebbe giovato una accurata revisione editoriale, pp. 254, euro 18,00), ma sembra che lo scrittore catalano non stabilisca alcuna relazione tra l’idea di Hitchcock e quella di Mallarmé, sebbene le usi più volte entrambe nel descrivere il suo soggiorno a Documenta 13, la mostra avanguardista più ambiziosa del mondo, dove vengono ospitate opere delle quali si potrebbe dire che, in fin dei conti, sono esse stesse degli esempi di mcguffin.

Lo sono sia per la loro natura, spesso pretestuosa e strettamente imparentata con il paradosso, sia per la loro ingannevole oggettualità che, essendosi emancipata dai materiali artistici tradizionali, ha inglobato qualsiasi tipo di cosa proveniente da quella che la fenomenologia chiama la Lebenswelt, il mondo della vita e delle nostre esperienze quotidiane. Con la conseguenza di rendere imperativa la domanda su come distinguere un oggetto artistico da uno di uso comune. Consapevole o meno di tutti gli esercizi di ontologia che l’arte contemporanea si è portata dietro, Vila-Matas si aggira stupefatto e ammirato per gli enormi spazi allestiti a Kassel, dai quali tornerà con abbondante materiale per il «reportage romanzato» che costituisce il suo ultimo lavoro, una sorta di viaggio ai confini dell’immaginazione che ricorda (o almeno a me ha ricordato) quell’irresistibile resoconto di una crociera extralusso nei Caraibi che la rivista «Harper’s» commissionò a David Foster Wallace, poi trasformata nel racconto «Una cosa divertente che non farò mai più».

L’ironia di Vila-Matas è tuttavia temperata dal rispetto che gli procura l’inventiva, a volte geniale, degli artisti convenuti a Documenta: quelle cui assiste – si dice – sono cose «che non si vedono mai al telegiornale». Fiducioso nel potere sovversivo delle opere tra le quali si aggira, ma anche negli avventori che da ogni parte del mondo convergono in quel luogo, attribuisce loro «silenziose cospirazioni», «taciturne ribellioni», che un giorno forse «si solleveranno con una furia inedita e faranno saltare tutto per aria». Ma ciò che più di ogni altra cosa è godibile, in questo romanzo di Vila-Matas, è il racconto di come arrivò a essere invitato a Kassel e di cosa si pretendeva da lui.

Pare che tutto fosse cominciato con la telefonata di una certa María Boston, che si qualificò come segretaria di una coppia di irlandesi di nome McGuffin, intenzionati a invitare a cena lo scrittore spagnolo per fargli una proposta irresistibile: niente meno che rivelargli, una volta per tutte, «la soluzione al mistero dell’universo». Non tanto l’offerta quanto la voce suadente di María fanno sì che Vila-Matas deroghi alle sue abitudini di chiudersi in casa la sera, abitudini a loro volta derivate dalla angoscia che puntualmente lo assale con l’avanzare del buio. Va dunque all’appuntamento ma, coerenti al cognome che portano, i McGuffin non si presentano. E quando mai sono esistiti?
Al loro posto compare María, che candidamente svela l’imbroglio: i suoi committenti sono in realtà Carolyn Christov-Bakargiev e Chus Martínez, entrambe curatrici di Documenta 13, nella cui cornice vorrebbero invitare lo scrittore spagnolo affinché tutte le mattine si sieda in un ristorante cinese alla estrema periferia di Kassel e mostri se stesso al pubblico mentre scrive. E già che c’è, dovrebbe anche partecipare a una serie di conferenze in via di progettazione alle quali è previsto non partecipi nessuno.

Ora, sebbene nomi, luoghi, opere, artisti e curatori facciano indefettibilmente parte della realtà, e abbiano animato senza ombra di dubbio la tredicesima edizione di Documenta, come siano andate le cose non è dato saperlo; resta il fatto che Vila-Matas ne organizza il racconto in maniera trascinante, forte di quel giusto distacco che gli permette una ironia non esente da picchi di entusiasmo. Quasi tutta la trama del romanzo è, in realtà, una mappa selettiva delle opere nelle quali lo scrittore spagnolo si imbatte, con alcune parentesi riservate alla descrizione degli stati d’animo che alterna dal giorno alla sera: euforico, propositivo, ricettivamente orientato a lasciarsi sorprendere finché c’è luce; depresso, angosciato e ostentatamente misantropo con l’avanzare della notte.

Nella valigia ha messo Il Romanticismo di Rüdiger Safranski, che lo rimanda alla frase di Nietzsche secondo cui «Solo come fenomeno estetico l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati». La massima, che Vila-Matas tiene a cuore come viatico al mondo artistico nel quale si immergerà di lì a poco, dovrebbe costituire, in realtà, una seria interferenza alla sua possibilità di goderne, dal momento che, coerentemente alle sue intenzioni originarie, quanto Documenta promette di offrire è una sorta di trionfo dell’arte in assenza di virtù estetiche. Perplesso e tuttavia ammirato, lo scrittore spagnolo dà fondo all’unica possibilità che le opere gli offrono di apprezzarle e decodificarne il significato: le osserva e le interpreta. Una installazione su tutte gli sembra sintetizzare lo spirito di Documenta 13, si intitola Untilled ed è firmata dal francese Pierre Huyghe, che ha trasformato una zona ordinata del parco in un letamaio per la produzione di humus, e ai margini ha piazzato la statua di una donna la cui testa è avvolta in un alveare. Lungo il parco, ridotto a un cascame di residui organici in decomposizone, si aggirano due cani, parte integrante dell’opera, uno dei quali è un levriero la cui zampa è stata dipinta di rosa, ciò che lo ha trasformato nella vera icona di Documenta 13. Vila-Matas avanza associazioni tra il penetrante odore di humus che si innalza dalla installazione di Huyghe e la «stanchezza mortale dell’Occidente». E, più in generale, questo è il suo bilancio: «Non ho mai visto meglio rappresentata poeticamente, con un senso dell’orrore e dell’eleganza particolarissimi, l’idea di rottura con la bellezza classica sempre così legata all’arte». Vila-Matas sa bene, in realtà, che il sodalizio tra l’arte e il bello è tramontato da tempo, e da attonito «viandante» in un mondo che gli riserva a ogni angolo stranezze e meraviglie riflette sul fatto che «l’arte è qualcosa che ci sta accadendo».

Che abbia letto o meno le teorie filosofiche degli ultimi decenni, Vila-Matas ha comunque introiettato il fatto che è ormai impossibile separare l’arte dalle questioni relative al suo statuto, e che trasformandosi essa si è fatta autoriflessiva, ha introiettato la coscienza di sé, è entrata in una fase postnarrativa che pone a quegli scrittori intenzionati a assumerne il protagonismo nelle loro opere problemi diversi da quelli tradizionali che, per esempio, occupavano ancora la mente di Henry James nei suoi racconti di artisti.

Da che si è popolata di gesti e di oggetti presi in prestito dalla vita quotidiana per trasformarsi in incarnazioni di significati, l’arte contemporanea, o almeno alcune sue manifestazioni, è stata inglobata in alcuni romanzi come parte del paesaggio urbano, una sorta di presenza al tempo stesso naturale e straniante, di fronte alla quale i personaggi romanzeschi sembrano sospesi in una incredula, e al tempo stesso rispettosa, perplessità.

Prima ancora di rendere protagonista di una sua novella del 2001 una body artist, Don DeLillo aveva introdotto in Underwold la memorabile figura di una artista originaria del Bronx di nome Klara, che recupera le carcasse dei bombardieri B-52, li dipinge con figure cui demanda il compito di allontanare la morte, poi li schiera nel deserto come relitti di un paesaggio naufragato. E a parte le numerose figure di performer sparse un po’ in tutti i suoi libri, DeLillo avrebbe poi aperto il suo romanzo del 2010 titolato Punto Omega al MoMa di New York, davanti alla proiezione di 24 Hour Psycho, il lavoro in cui l’artista scozzese Douglas Gordon dilatò la durata del film di Hitchcock fino a fargli occupare lo spazio di una intera giornata.

Più recentemente, Siri Hustved ha calato il suo romanzo Il mondo sfolgorante nel contesto delle gallerie d’arte newyorkesi, mimandone alla perfezione i diversi idioletti, i vezzi, le gergalità e dimostrando alla fin fine anche lei, con una consapevolezza esibita attraverso riferimenti puntuali ai maggiori esponenti della filosofia dell’arte, ciò che Joseph Kosuth aveva sostenuto nel 1969, ossia che l’unico ruolo al quale già in quell’epoca un artista poteva ambire era quello di mettere in questione la natura dell’arte.

Più che una grande esposizione, Documenta 13 fu, a detta della curatrice Carolyn Christov-Bakargiev, «una disposizione d’animo»: parole che Vila-Matas intende come pronunciate apposta per lui, in preda alle sue oscillazioni umorali tra euforia e depressione, mentre tutto cospira a renderlo perfettamente intonato al tema della mostra, Collapse and Recovery. Confinato nel malinconico ristorante cinese dove dovrebbe esibirsi nell’atto di scrivere, a vantaggio degli eventuali imbecilli intenzionati a ficcare il naso nel suo lavoro, lo scrittore catalano si domanda, in una pagina satura di congetture tanto più divertenti quanto più sono banali, perché mai sia finito lì, e sogna di costruirsi una capanna come quella in cui Wittgenstein si isolò a Skjoden.

Finirà anche lui per trasformarsi in una installazione di Documenta, non prima – però – di averne sfruttato le atmosfere per riportarle tra le pagine di questo romanzo, pagine capaci di imprigionare anche la più sfuggente, la meno retorica e la più romantica tra le opere esibite a Kassel, The invisible Pull, una corrente di aria artificiale firmata da Ryan Gander, che a Vila-Matas ricorda l’Air de Paris di Duchamp.