Girato in sontuoso 35mm, con ritmi che ricordano quelli di David Lean e un soggetto che rimanda alle imprese impossibili nelle giungle di Werner Herzog, Francis Coppola e Mel Gibson, The Lost City of Z ha chiuso sabato sera il New York Film Festival. Atteso da tempo (originariamente un titolo Paramount, uscirà invece, in Usa, targato Amazon, e solo la primavera prossima) questo ultimo lavoro di James Gray è il film più ambizioso e di largo respiro realizzato finora dal regista newyorkese, un affresco d’epoca, ambientato tra la Londra del primo novecento e le foreste dell’Amazzonia, più simile al recente C’era una volta a New York che a melodrammi metropolitani come Little Odessa, The Yards e Two Lovers. Ma, in comune con tutta l’opera di Gray (ebreo di origine russa -identità spesso esplorata nei suoi film), The Lost City of Z ha l’interesse per l’incontro/scontro tra culture, e la volontà di lavorare sul cinema classico non in chiave citazionistica, post moderna, ma attingendo al suo linguaggio originale.

Un po’ come i film da regista di John Milius, anche se con valori completamente diversi. Esibendo un vistoso disgusto per qualsiasi forma di razzismo, classismo, sessismo, colonialismo e abuso ambientale, Z è infatti un film dai valori estremamente contemporanei, piuttosto anacronistici nell’Inghilterra di Arthur Conan Doyle, H.Rider Haggard e del loro amico Percy Harrison Fawcett, l’ufficiale, cartologo ed esploratore su cui si basa la storia, e un personaggio le cui gesta avrebbero ispirato, tra gli altri, eroi della fiction come Indiana Jones, il professor Challenger di Conan Doyle, e l’esploratore nascosto nella giungla del pixariano Up. Sono quei valori, più che la promessa di una straordinaria conquista archeologica, che guidano ogni scelta del protagonista del film di Gray, tratto dall’omonimo libro di David Grann (2005), uno degli ultimi usciti sulle avventure, e la misteriosa fine, di Fawcett, che qui è interpretato con nobile aplomb dall’attore Charlie Hunnman (dalla serie TV Sons of Anarchy).

Lo incontriamo, in una verde campagna inglese, punteggiata di giacche rosse, impegnato in una caccia al cervo. È lui che, battendo tutti per coraggio e agilità, uccide l’animale. Ma la stessa onta ancestrale che ha impedito la sua ascesa nel rango militare, fa sì che anche nella caccia il suo trionfo non venga celebrato. Così, per riabilitare il nome di famiglia, accetta la pericolosa missione di mappare un angolo sconosciuto di Amazzonia. Lasciata a casa una moglie indipendente e progressista (Sienna Miller), ben presto, Fawcett, accompagnato da un irriconoscibile Robert Pattinson, è inghiottito da un verde molto più insidioso e profondo.

Ai margini della foresta vergine, Franco Nero (nei panni di un capitalista brasiliano cui piace l’opera) lo ammonisce invano del pericolo cui va incontro, e delle possibili conseguenze storiche della sua spedizione. Fawcett continua imperterrito e, dopo un viaggio estenuante ai confini del mondo, torna a casa, armato non solo di una mappa, ma della convinzione che, in quella giungla fitta di «selvaggi» esista anche una città d’oro, Zed, prova dell’esistenza di una civiltà avanzata e «forse più antica della nostra». Lo scherno dell’establishment scientifico, politico e intellettuale britannico non lo scoraggia: Fawcett tornerà in Sudamerica ancora, e poi ancora…, fino a scomparirvi una volta per tutte – fedele ai suoi alti principi come The Lost City of Z, un film più elegante, sincero e raffinato che coinvolgente.