C’è un piccolo angolo di mondo, in California, immerso in una natura affascinante e a tratti ancora selvaggia, lungo appena 23 miglia, (37 chilometri), dove si possono scoprire piccole grandi storie di cultura e letteratura americana. Come un lungo nastro che segue il profilo della costa californiana e che s’inerpica in tortuosi tornanti, la Highway 1 ci accompagna direttamente, se si arriva da nord, fino a Monterey. Proprio Monterey è stata la culla e la regione in cui è cresciuto il premio Nobel John Steinbeck, e oggi forse Monterey sarebbe tanto diversa, se questo ragazzo che aveva abbandonato l’università di Stanford dopo quasi sei anni di tentativi e dubbi, non si fosse messo a scrivere davvero della sua terra. Già, proprio della sua terra. Perché moltissimi suoi libri si basano e sono ambientati in quel pezzo di California che lui aveva conosciuto tanto bene. Era cresciuto a Salinas, a poche miglia da Monterey, e proprio per quelle strade, per quei campi, hanno abitato i suoi tanti personaggi. Monterey non solo come luogo fisico, ma come ispirazione di tanti caratteri dei suoi personaggi. Settant’anni fa, nel 1945, ormai già conosciuto come autore, aveva pubblicato Cannery Row (Vicolo Cannery), la storia di una piccola strada che si affacciava sull’oceano Pacifico e dove allora stavano le fabbriche e i lavoratori che inscatolavano le tante sardine che arrivavano dalle barche dei pescatori tutte la mattine. Quel vicolo, che forse si potrebbe anche definire quasi un lungomare molto particolare – perché a tratti senza vista sull’oceano – Steinbeck lo aveva battezzato Cannery Row, che da sempre era il soprannome di quella che in realtà era Ocean Avenue. Nel 1958, come segno di ringraziamento della città all’autore e al libro, quello era diventato davvero il suo nome. Quella storia era stata ambientata negli anni della depressione, e i personaggi sono persone di cui resta ancora il ricordo lungo la piccola strada. Sì, perché i suoi personaggi sono proprio quegli individui simpatici, indaffarati, a volte imbroglioni ma sempre onesti e di sani e semplici principi, che fanno di tutto per fare un regalo a un amico. Sono quelle facce che una volta tutti probabilmente potevano incontrare per quella stradina. In generale, vagabondi come Mack e i ragazzi, potevano essere visti come fallimenti della società, ma Steinbeck percepisce e racconta tutta questa gente come il successo dell’umanità. Perché, se la società li definisce perdenti e barboni, lui li racconta come “la virtù, le grazia e la bellezza della frettolosa follia che vive a Monterey”. Non vengono giudicati per quello che fanno ma per quello che realmente sono, vivendo senza mai offendere la moralità e gli altri. È come se Steinbeck volesse avvisarci che, quando le persone perdono quel lato unano, non resta altro che assurdità.

Cannery Row comincia proprio così: “Il Vicolo Cannery a Monterey in California è un poema, un fetore, un rumore irritante, una qualità della luce, un tono, un’abitudine, una nostalgia, un sogno. (“Cannery Row in Monterey in California is a a poem, a stink, a grating noise, a quality of light, a tone, a habit, a nostalgia, a dream”). Una realtà quotidiana dura e aspra, ma per cui si prova comunque sempre un affetto speciale. In queste pagine viene raccontata la vita indaffarata e sconclusionata di pescatori e tuttofare senza lavoro, del droghiere cinese Lee Chong, (di cui la vera insegna tutta rovinata è ancora su un vecchio edificio lungo la strada), dei ragazzi, “the boys”, e del loro “capo” Mack. Mentre trattano con Lee Chong, capitanati da Mack, cercano di organizzare una festa di compleanno al Western Biological Laboratories per il loro amico Doc, biologo marino.

A Cannery Row era seguito, nove anni dopo, Sweet Thursday (Quel Fantastico Giovedì), più o meno con quegli stessi personaggi, sempre a caccia di lavoro, di birra e spesso poco organizzati e pasticcioni.

E poi a Cannery Row c’erano anche i bordelli. La proprietaria di Bear Flag Restaurant – una delle case d’appuntamento del libro e ispirata al Lone Star Restaurant – è Dora Flood (nella realtà Flora Woods). Nella sua rigorosa serietà libertina, la “madam”, leggiamo, si rifiutava comunque di servire alcolici troppo forti e non sopportava bestemmie nel suo locale. L’altro bordello del libro era La Ida Cafè (nella realtà Edith’s Restaurant), ricordato da un’insegna sulla parete di quello che oggi è la pasticceria Austino’s, sempre su Cannery Row.

Uno dei protagonisti, Doc, è proprio ispirato a Ed Ricketts, grande amico di Steinbeck e biologo marino, con cui avrebbe poi scritto, nel 1951, The Log from the Sea of Cortéz (Diario di bordo dal Mare di Cortés) e i cui laboratori stavano proprio dove oggi c’è il Monterey Bay Aquarium, (https://www.montereybayaquarium.org), aperto nel 1984.

A volte sembra quasi che Monterey, la Monterey di oggi, sia nata e viva grazie a John Steinbeck e alla piccola discreta Cannery Row. Tra i due lati della stradina ci sono delle specie di attraversamenti coperti che servivano per portare le sardine inscatolate nei depositi vicino ai binari della Southern Pacific Railroad. Ora tutto vive per e grazie al turismo e quei ponticelli, come gli edifici, un tempo cannery, ospitano gallerie d’arte, enoteche, ristoranti, negozi che vendono un po’ di tutto e soprattutto libri di John Steinbeck. Tutto, anche le birrerie, come la Cannery Row Breweing Company, ricordano lo scrittore.

Se si sceglie di dormire nel vicolo (evitando i prezzi dei weekend delle vacanze americane), un hotel molto caratteristico e il cui edificio risale all’epoca delle cannery, è il piccolo Spindrift Inn (http://www.spindriftinn.com), che si affaccia direttamente sul mare e su gabbiani, pellicani, lontre e leoni marini schiamazzanti.

La zona, la contea di Monterey è stata la culla di tanti altri romanzi dello scrittore, come East of Eden (La Valle dell’Eden) – poi film con James Dean nel suo primo ruolo importante – Wayward Bus (La Corriera Stravagante) del 1947 dove un autobus percorre la famigerata (in tempi di pioggia) Highway 1. Torrtilla Flat (Pian della Tortilla, 1935), con una popolazione di poveri paisanos sempre a caccia di qualche soldo e, ovviamente, sempre in quella California ricca di lavoro e in quel caso anche di ingiustizie, Grapes of Wrath, (Furore, 1939) che lo porterà poi, nel 1962, in Svezia per ricevere il Premio Nobel.

Seguendo la 183 EST si arriva a Salinas, la sua città, dove, nel 1974, proprio nella sua casa al 132 di Central Avenue, il gruppo di volontari Valley Guild, dopo averla acquistata e restaurata, ha aperto un ristorante per appassionati “Steinbeckiani”.

Il National Steinbeck Center, poco lontano, (http://www.steinbeck.org) oltre a filmati d’epoca, a pezzi dei film realizzati sui suoi film, ai tanti oggetti dello scrittore (come la sua scrivania e le sue note scritte a mano), è un altro bell’esempio di come gli abitanti, orgogliosi dello scrittore premio Nobel, offrano il proprio lavoro di volontari per mantenere il ricordo del “loro” John sempre vivo.

Proseguendo verso sud sulla Highway 1, e superato lo storico e spettacolare Bixby Bridge (costruito in poco più di un anno tra il 1931 e il 1932, lungo 218 metri e alto 85), si arriva a Big Sur dove, nella selvaggia e splendida natura, s’incontrano altri due grandi scrittori. Anche loro hanno intitolato i loro libri con il nome di quel luogo.

Jack Kerouac aveva scritto, nel 1962, un libro intitolato proprio Big Sur, dove racconta nel suo stile tagliato, sincopato e ribelle in tutti i sensi, tre brevi soggiorni di Duluoz (suo alter ego), nello chalet di Lawrence Ferlinghetti a Bixby Canyon. Racconta il deterioramento delle sue condizioni fisiche e mentali, l’alcolismo, la depressione, l’incapacità di confrontarsi con la fama e un pubblico sempre più grande, come se si sentisse braccato dalle aspettative del mondo e del successo. Era riuscito a trovare riposo vivendo in quella natura, grandiosa e selvaggia di Big Sur. Un’esperienza forse molto “simile” a quella del libro si può davvero vivere negli chalet affittati dall’hotel Glenn Oaks (www.glenoaksbigsur.com), letteralmente immerso in una foresta di altissimi redwood (sequoie) e in cui sembra si perda ogni senso d’orientamento. Le piccole case di legno sembrano essere state costruite proprio per artisti e scrittori alla ricerca di se stessi.

Sicuramente sono molto simili alla “cabin” di Kerouac alias Duluoz, dell’omonimo film Big Sur, che è stato presentato al Sundance film Festival nel 2013 ma purtroppo mai arrivato in Italia (trailer: https://vimeo.com/68157083). Sì, Big Sur contiene davvero tutta quella magia, quella violenza, estasi e bellezza di forze della natura senza limiti.

Non c’è quindi davvero da meravigliarsi se alcuni ribelli, cercatori e viaggiatori, passati una volta, hanno deciso di fermarsi. È anche il caso di Henry Miller che, nel 1957, pubblicava Big Sur and the Oranges of Hieronymus Bosch (Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch), ritratto sincero e innamorato dei 15 anni di vita vissuti qui. Ci racconta delle tante semplici persone, sempre pronte ad aiutarsi a vicenda in una zona tanto bella quanto difficile da abitare. Il libro di Miller è un ritratto della sua vita qui, delle tante straordinarie persone che aveva conosciuto, degli artisti, degli scrittori, degli scrittori che non scrivevano, dei mistici che meditavano cercando la verità, di bambini molto sofisticati e adulti molto infantili, di geni e di folli. Scrive con pungente e divertita ironia, ma questo è anche un libro molto serio, perché rappresenta la testimonianza di chi ha avuto il coraggio di rompere con i cliché della sua vita moderna per trovare il suo personalissimo modi di vivere. Serio ed estremamente doloroso quando la terza moglie se ne va con i figli. Conosciuto soprattutto per i suoi libri scandalo scritti a Parigi, a Big Sur, con la moglie Janina Lepska e i due figli, era cambiato molto e scrisse, proprio nel libro, “solo quando siamo davvero da soli, la pienezza e la ricchezza della vita ci si rivelano…”.

Alla Henry Miller Memorial Library (www.henrymiller.org), gestita dal direttore Magnus Torén, appassionato esperto di Miller, si organizzano corsi di scrittura, incontri con autori, concerti e un Festival di film.

Quelle miglia di costa californiana sono davvero tanto speciali, e Miller confidava a un caro amico che, “nonostante le sue scomodità, sono attaccato a Big Sur. È il mio Paradiso. E il mare, il vento, le scogliere, il cielo, le stelle sono insostituibili! Non troverò mai un promontorio come questo in Francia”.