Cosa vuol dire per un artista ragionare sull’essere artista? Ad esempio può voler dire spostarsi di ottomila chilometri e provare a rappresentare sotto altri cieli chi si è e che cosa ci si sta a fare. Rappresentarlo a se stesso e agli altri. È la rotta che Gianni Dessì ha seguito lo scorso anno e che lo ha portato da Roma a Pechino per realizzare una triplice installazione. Sono tre teste di dimensioni monumentali («Per strapparle via da una dimensione naturalistica», spiega Dessì). Sono dichiaratamente autoritratti, anche se le questioni fisiognomiche sono le ultime a cui lui abbia prestato attenzione. Quello che gli premeva era mettere nero su bianco, dare visibilità ed evidenza al sine qua non dell’essere artista.
Ecco allora il percorso, scandito appunto in tre «stazioni», con chiarezza estremamente meditata e alla fine quanto mai persuasiva. Prima stazione, una grande testa in bronzo, dipinta di un rosso carnale e infiammato, che davanti agli occhi ha una griglia impreziosita da un filo dorato: rappresenta «il vedere», come atto che crea una relazione. L’atto del vedere nell’artista si avvale di una griglia, attraverso la quale il disegno si insinua e prende forma (annota Dessì: «Mi sembra che l’arte, oggi, si sia infilata in un intellettualismo che astrae dalle cose. Invece bisogna sempre ‘ficcare’ le mani nelle cose»). Segue la seconda stazione, la più poetica: una testa più monumentale delle altre perché appoggiata su un piedistallo. Con la bocca, soffiando, riempie e dà forma a una sfera perfetta, bianca, d’acciaio. Una bolla in bilico sulle labbra dell’artista, resa leggera e quasi aerea dal suo fiato. «È il respiro dell’opera – ci dice Dessì –, la sua capacità vitale di creare forme e nuove geometrie. È l’aura che riesce a far vibrare attorno a sé, che fa pensare, che commuove». Infine alla terza stazione c’è la grande testa gialla, marchiata frontalmente da un rettangolo nero: è la dinamica del dentro e del fuori, «un dentro che segna, che si staglia nitido nell’asperità della materia». L’arte è un «dentro» che accetta la sfida di venire a galla, di uscire allo scoperto, di non restare più soltanto dentro. Il titolo dell’installazione, infine, non è un dettaglio: Tre per te. Chi è quel «te»? Può essere innanzitutto l’appassionato magnate e collezionista cinese che ha commissionato a Dessì quest’opera, George Wong: collezionista con particolare vocazione a raccogliere arte italiana. Ma il «te» è anche lo spettatore, cioè chiunque passi da quel grande edificio di Pechino, contenitore di un po’ tutto, davanti al quale l’opera è stata collocata. Dessì: «È dedicata a George Wong che l’ha voluta ma è dedicata anche a chiunque passi di là». Come a dire, l’arte non può essere per me se non c’è anche un «per te». E ogni tanto davanti a questo prezioso e indispensabile «altro» è necessario scoprire le carte, per riaffermare le ragioni e la legittimità del fare. L’arte, sembra voler dire Dessì, oggi ha sempre più bisogno di un riesame, di incrociare la sua ragion d’essere. Di meditare sul proprio statuto.
La stessa cosa accade, questa volta su scala minima, all’ingresso della mostra di Gianni Dessì alla Galleria milanese Progettoarte-Elm. Il visitatore è accolto da una piccola opera, vagamente impertinente, che con i suoi 61×30 centimetri occupa la parete grande. La didascalia ci dice che la tecnica è olio su cartoncino telato, ma aggiunge anche due altre voci: «cordino e chiodo». Il cordino è attaccato agli angoli alti del cartoncino, e lo regge grazie al chiodo che in alto chiude il triangolo. Il cartoncino, dice la stessa didascalia, è «su muro»: in questo modo viene ribadito in maniera incontrovertibile che l’allestimento è parte costituiva dell’opera. E che il chiodo è condizione indispensabile perché quella pittura esista. Quella pittura, o forse tutta la pittura. Gianni Dessì parla con un affetto tutto particolare di questa opera semplice e senza pretese. «È una piccola cosa – racconta – , un omaggio a Mario Schifano, da cui ho preso anche il titolo, “con anima”. Il chiodo è parte pienamente espressiva, perché regge l’evidenza della pittura sul muro e rende palese la sua gravità. Il senso dell’omaggio sta nel fatto che Schifano era un posseduto dalla pittura: quello era il suo vero demone. Non la possedeva, ne era posseduto. Per questo è come se avesse rinnovato la fiducia nella pittura, dandole una nuova possibilità in tempi alla pittura sostanzialmente ostili; con Mario la pittura ritrovava un suo senso nel far crescere i riverberi tra le cose».
C’è un ripetuto accento tautologico nel lavoro recente di Dessì. Troviamo un quadro intitolato Sulla tela; un altro è Interno, e lascia emergere una forma che sembra la crociera del telaio; oppure Nel mezzo, opera grande in vetro resina e tempera sempre «su muro», che cita se stessa e insieme la forma che rappresenta. Non si tratta di sofisticati giochi linguistici, ma di un’accorata ricerca di un luogo, del luogo: quello della pittura. Un’altra parte di opere presenti alla mostra milanese, invece, si presenta «senza titolo». «“Senza titolo” significa che la pittura non parte da un mio progetto. Non ha un nome. A volte il nome esce fuori, perché è l’azione stessa del dipingere che lo fa emergere e me lo fa trovare. Io allora assisto con sorpresa al manifestarsi delle immagini e a volte al loro riconoscimento. Per esempio, il «senza titolo rosso» mi ha fatto pensare alla mitologia, a Diana, all’immagine ghiacciata del bosco». E infatti il nome di Diana ha fatto capolino nel titolo, con pudore, messo tra parentesi.
«Il titolo, quando c’è, lo trovo alla fine, non all’inizio. Perché se dovessi semplicemente fare il quadro che ‘so’, ciò che ho nella mia mente, io che ci starei a fare?», continua Dessì, come ad approfondire il ragionamento iniziato a Pechino. «Ogni volta, invece, cerco il quadro che non so, cerco l’altrove che si affaccia, imprevisto nel suo modo di palesarsi. A volte è possibile che l’immagine resti in filigrana, e deve cercarla anche chi si ferma a guardarla, allo stesso modo di me che la faccio essere. A volte può accadere che la pittura ti chieda di violare anche l’integrità della superficie. Se non si accetta questo scarto, che è poi il mistero della pittura, resta solo lo stile. Ma lo stile non interessa più a nessuno, neanche a me che me ne faccio portatore. Lo stile per me è la pittura che si accontenta di andare in folle. È pittura che si mette a disposizione dell’imprevisto».
Nell’arte di Dessì è facile scorgere un’anima teatrale, certamente rafforzata dalle numerose incursioni da scenografo, in particolare per Peter Stein (Parsifal, 2002; Il Castello del duca Barbablù, 2008), sino alla recente realizzazione di scene e costumi per Il suono giallo di Alessandro Solbiati, ispirato al testo originale di Wassilij Kandinsky. Così gli viene da pensare al supporto – tavola, tela, ma anche scultura – come a un palcoscenico, allestito perché qualcosa vi «accada». Ma Dessì, a teatro, dà un rilievo particolare al fattore «tempo». «Il teatro – dice – è un luogo che incrocia un tempo: il tempo sulla scena cade dentro un “divenire”. Nella pittura, invece, il tempo cade dentro l’attimo che fa affiorare l’immagine; è un ‘gesto’ che incontra l’immagine e la mette in parallelo con la vita e e le sue evenienze, quasi per verificarne la tenuta».
Se ci sono Pechino e Milano nella recente agenda di Dessì, Roma resta il luogo per antonomasia del suo agire e del suo pensarsi. La Roma a cui ha legato tutta la sua biografia umana e artistica e a cui continua a guardare, quasi con gratitudine, come a una matrice insostituibile. «Roma per me è la storia. Non una storia che ti tiene in ostaggio con la sua grandezza, ma una storia al contrario che ti libera, perché ti dice che non sei immortale, che tutti siamo eredi e che abbiamo a che fare con la metamorfosi di ciò che abbiamo ereditato. Roma è un argine al deserto della modernità. È il luogo in cui le forme hanno sposato le idee e i desideri degli uomini, anche fossero stati desideri di potere».
Ed è in questa Roma di oggi ferita, assediata e logorata che Dessì continua a lavorare, aggirandosi attorno a quell’unico pensiero: cosa è, cosa dovrebbe essere lo sguardo di un artista. E per suggestione si pensa alla sua familiarità con il giallo, quel giallo che solca frontalmente il bellissimo Ritratto in ceramica raku in mostra a Milano. Lo sguardo del personaggio è lievemente e poeticamente orientato verso l’alto. E ascoltando Dessì se ne capisce il motivo: «Il giallo è colore che sollecita il tutto. È il materializzarsi di una visione che si avvicina all’accecamento. Forse ha a che fare con un sogno»