Racconta Mario Martone che nella scrittura del Giovane favoloso, lui e Ippolita di Majo hanno deciso sin dall’inizio di non varcare le molte soglie che la figura leopardiana offriva, per rimanere invece a fianco dello spettatore. Questo muoversi lungo i bordi della cronaca permette al regista di rivelare del suo personaggio, Giacomo Leopardi, a cui dà corpo spiazzante Elio Germano, la poesia e il conflitto, la scelta di libertà disturbante nell’epoca in cui vive. La voce di Leopardi diviene un mezzo per riflettere sui nostri tempi, su cosa significa essere artista, regista di cinema o di teatro o intellettuale, quando intorno la realtà reclama una scelta. La cui natura però non può essere semplicemente ideologica, ma al contrario impone una continua messa in discussione del proprio pensiero, e dunque del proprio fare.

Il viaggio in Italia rosselliniano del poeta appare anche come un viaggio nel fare artistico del regista, e non solo per le affinità con il precedente Noi credevamo, in quel suo lavoro sull’Ottocento italiano, o per gli anni dedicati a Leopardi del quale ha portato in scena le Operette morali – ritroviamo qui molti degli interpreti. O per il titolo, Il giovane favoloso, ispirato da Anna Maria Ortese, scrittrice a Martone cara.

C’è nel film la ricerca forte di rendere visibile una lingua, di dare immagine narrando i movimenti della vita, alla poesia che ci riporta al suo teatro, dai tempi di Rasoi, di cui Enzo Moscato che appare in un fulmineo cameo è stato il maestro coi suoi versi carnali, fisici di sentimento, rabbia e dolcezza. Quella stessa «letteratura» che sin dagli esordi, con Morte di un matematico napoletano è in relazione con il cinema di Martone, non però come spunto per una storia ma come ricerca, attraverso la parola, di una forma cinematografica che ne interpreti l’essenza e l’universo che contiene. Un’immagine poetica e politica, priva di retorica, appassionata e moderna, nell’epifania in un sussurro del vento in un verso.

Che ci conduce nelle viscere di una Napoli caravaggesca, illuminata da chiaroscuri di Renato Berta, i cui impasti luce riescono sempre a trovare la perfetta corrispondenza tra stato d’animo e la parola poetica. Lì, nei vicoli bui di bettole e di puttane, Leopardi scopre il sesso dell’ermafrodita, unica «licenza poetica» di Martone, che mischia il mondo di Moscato e dei suoi Lupanari alla Napoli della parola leopardiana, pulsante di vita e di miseria, di mare e di colera che si porta via la gente.

Il giovane favoloso, non è perciò la «biopic» di Leopardi, pure se ne ripercorre le tappe fondamentali dell’esistenza, dall’infanzia di «studio matto e disperatissimo» alle prime ribellioni contro il padre, il conte Monaldo (grande Massimo Popolizio), che gli vorrebbe far prendere i voti per quella sua salute gracile. Con la sorella e i fratelli il giardino e la biblioteca paterna sono il mondo da bimbi, e poi una gabbia, una prigione da cui lo sguardo fugge posandosi sul sorriso carnale della contadina giovanissima e bella che vive di fronte. Il conte è padre crudele che esibisce in pubblico con gli esercizi di calcolo le doti del figlio prodigio. La madre è durissima, ossessionata dalla preghiera, gli nega quell’affetto che è una sola carezza.

Il ragazzo Giacomo è il più talentuoso e il più irrequieto. L’amicizia col maestro Pietro Giordani è una medicina – splendido Valerio Binasco – una cura contro Recanati, dove tutto è noia, e lui agli occhi degli altri è solo un ragazzo orrendo. È diverso Giacomo, si sente diverso, e non solo per la malattia che lo deforma. Alll’erudizione preferisce la conoscenza, e il precettore – Sandro Lombardi – e il padre tremano quando in casa si parla di dubbio e di ragione umana, per loro potenti nobili e prelati dello stato pontificio esiste solo il dogma.

Dieci anni dopo Leopardi è a Firenze, ma la società letteraria lo guarda con diffidenza. Lì con l’amico Ranieri (rivelazione Michele Riondino) scopre l’amore e le sue illusioni nell’incontro con la nobile Francese Fanny – Anna Mouglalis. Ai letterati non risponde, loro lo giudicano pessimista, ma pessimismo o ottimismo per lui sono parole vuote.
Roma è la famiglia, i palazzi del potere, le attese infinite nell’anticamera dello zio (e la magnifica ultima apparizione di Veronica Lazar nel ruolo della zia). Napoli è il piacere di perdersi, la natura matrigna ma sensuale del Vesuvio e della sua potenza, fantasma di donna davanti a quel suo corpo sempre più piegato dalla gobba e dai dolori.

«Non scrivo di malinconia perché sono malato» replica mangiando il gelato proibito Leopardi a chi gli dice che le sue poesie sono troppo tetre, che c’è bisogno di allegria. Pure se nel movimento narrativo, governato dall’occhio preciso di Jacopo Quadri al montaggio, il poeta è la sua opera che è la sua vita, e viceversa, ma lasciando fuori il sentimentalismo dell’io. La visione di Martone è dentro a un pensiero lucidamente politico che interroga il proprio essere al mondo. È lo scontro di un’aspirazione libera con i dettami di stile o di comportamento, sono le scelte della vita, di una sensualità vietata che attraversa i generi, e trova negli incontri con i ragazzetti dei vicoli l’occasione di conoscenza del mondo.

Il giovane favoloso è uno struggente film sulla giovinezza, sullo scontro coi padri, sul bisogno di utopie. Sulla scoperta del mondo, di sé, dell’amore, del desiderio, dell’amicizia. Il Leopardi di Martone non è quello dei libri di testo, e questo film, punta alta del concorso veneziano, dovrebbe essere visto da tutti gli studenti delle scuole. Leopardi è un artista, un intellettuale che rischia, e non cede al compromesso, «pasoliniano» perché voce critica e provocatoria di un disagio umano che non cerca mai di camuffare. È questa sua contemporaneità che Martone illumina in quello che è un grande film sul nostro tempo e su un cinema che può ancora inventare spazi liquidi di resistenza.