Un paio di mesi fa il governo italiano ha richiamato per consultazioni l’ambasciatore italiano al Cairo Maurizio Massari (mandato poi a sostituire Calenda a Bruxelles), salvo poi sostituirlo un mese dopo con Giampaolo Cantini, che ancora non ha preso possesso della sede. Si cambia ambasciatore per continuare a far finta di niente sul caso Regeni.

Qualcosa però nel frattempo è cambiato: le nostre esportazioni di armi verso l’Egitto. Che sono aumentate. Dai 32 milioni di euro di armi vendute nel 2014 ai 37 milioni di euro nel 2015. Questi i dati della relazione governativa del 2016 (resa nota poco più di un mese fa) sulle autorizzazioni concesse per le esportazioni di armi in ossequio (si fa per dire) alla legge 185 del 1990.
Intanto quella relazione registra un terribile aumento delle vendite di armi italiane nel mondo: da 2,9 miliardi (2014) a 8,2 miliardi (2015) di valore di armi smerciate a destra e a manca. Un business che dà sicuramente lavoro, o meglio procura affari: ai mercanti di morte. Va ricordato che la legge 185 del 1990 regolamenta il commercio di armamenti e stabilisce il divieto della vendita di armi a paesi in guerra o che violano i diritti umani.

Per il governo italiano il regime di Al Sisi evidentemente non rientra in questa categoria. I diritti umani vengono invocati per fare le guerre (come in Iraq e in Afganistan) e mai per vietare la vendita delle armi ai regimi che quei diritti li violano.

Il governo italiano è di «bocca buona» e continua a fare affari con un paese che incarcera gli attivisti democratici delle organizzazioni umanitarie e magari fa uccidere i ricercatori come Giulio Regeni. Vedremo cosa dirà la relazione del governo del 2017 sulle vendite del 2016. Intanto una cosa è certa: ancora pochi mesi fa -nel 2015 e prima nel 2014- abbiamo venduto armi (pistole, fucili, lacrimogeni, pezzi di ricambio per aerei, ecc.) ad un regime, quello di Al Sisi che ne ha fatto buon uso.

Infatti -come hanno denunciato l’osservatorio Opal e Giorgio Beretta della Rete Disarmo – gran parte di quelle armi sono andate a finire alle forze di sicurezza egiziane che magari le hanno usate per reprimere le manifestazioni democratiche e sindacali ed impedire l’esercizio delle attività delle organizzazioni umanitarie. Si tratta di 30mila tra pistole e carabine e molto altro.

Importanti sono le (solite) aziende italiane coinvolte: la Beretta, la Oto Melara, la Benelli, la Selex. Nel 2014, la ministra Pinotti ha sottoscritto con il sanguinario regime di Al Sisi una prima dichiarazione congiunta di cooperazione militare (e sono state concretamente avviate le iniziative comuni) in vista di un accordo vero e proprio, che -per fortuna- non è stato ancora siglato.

Ma quella dichiarazione congiunta non è stata mai smentita o revocata e la Pinotti fino ad ora si è rifiutata di rispondere -ma non è una novità- alle interrogazioni parlamentari.
Mesi fa un appello di Roberto Saviano, Stefano Benni, Valerio Mastandrea ed altri (appello che ha raccolto decine di migliaia di firme) ha chiesto al governo italiano di sospendere gli effetti della «dichiarazione congiunta» in materia di cooperazione militare con l’Egitto. E invece non solo la cooperazione militare continua, ma la vendita di armi sta aumentando.

Il richiamo dell’ambasciatore italiano si è dimostrata una decisione innocua e -anzi- la sua pronta sostituzione con Cantini ha evidenziato che tutto continua nella norma. Come nella norma continuano il business economico e la vendita di armi. Quella bellica è una delle poche industrie che, in periodo di crisi, continua a tirare: finché c’è guerra c’è speranza, si potrebbe dire, parafrasando il titolo di un vecchio film di Alberto Sordi nelle vesti di un trafficante d’armi.

La stessa speranza che trafficanti di armi e affaristi di regime vogliono negare agli attivisti dei diritti umani in Egitto, ai sindacalisti del Cairo, ai tanti giovani che contestano Al Sisi, a chi ricerca la verità per Giulio Regeni. Ma a questi killer della speranza -quella vera, quella buona- cui il governo italiano sembra corrivo anche se ipocritamente e solo apparentemente distante la risposta sarà sempre pronta e sempre la stessa: la lotta per la giustizia, la democrazia, i diritti umani.