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Incontrai Remo Ceserani, per la prima volta, negli interni di una Torre saracena. La torre consisteva in una colonna di piombo le cui chiavi gli erano state consegnate dalla redazione culturale del manifesto: era la sua rubrica, poteva farne quel che voleva. Custode e proprietario di quelle mura, godeva di un arbitrio assoluto, ma sembrava lo usasse soltanto per indovinare quel che ci interessava. Puntuale, a ogni scadenza di rubrica faceva calare tra noi qualche notizia pescata fra il regno del Materiale e quello dell’Immaginario, portava novità d’oltreoceano nominando come vecchie frequentazioni scrittori, critici, filosofi dei quali non avevamo ancora sentito parlare e a volte riusciva a sollevarci il morale persino con il rendiconto dell’impossibile galateo di una accolita di convegnisti. Succedeva prima che David Lodge si abbonasse al manifesto e gli rubasse l’idea.

Erano tempi in cui Remo non giocava ancora con i treni di carta, o meglio – come sempre – giocava e scriveva, fissava il lato fantastico delle cose, indagava l’intreccio delle circostanze, vagliava i temi ricorrenti nelle opere di finzione, si orientava nelle nebbie a dispetto dell’eco che gli disturbava le orecchie, finché un giorno non cominciò a maneggiare una macchina fotografica e con quella immortalò l’occhio della Medusa.

Gli anni passavano e lui accumulava schede, traduceva, annotava, scriveva, cancellava, stendeva elenchi, vagliava occorrenze, pescava figure, allargava il canone occidentale, aggirava quello orientale, tastava il polso alle influenze, decostruiva ostinate strutture, poi le rimontava. Gli appunti si accumulavano, il pavimento della Torre saracena cominciò a cedere, il capitello si inclinò e Remo decise di traslocare da quella postazione ormai troppo stretta e periclitante per trovare una più ampia dimora. Subito, le colonne del manifesto si allargarono per far posto alle molte cassette degli attrezzi e all’intera collezione delle favole postmoderne che Remo si portava dietro, poi quelle stesse colonne si allungarono, si moltiplicarono, trasbordarono sulle pagine a fianco; ma gli affamati del manifesto non erano mai sazi, e così Remo mandava reportage da università lontane, riflessioni su esoterici seminari, recensioni, elzeviri; papere però non ne mandò mai.

Da un certo punto in avanti toccò a me diventare la sua principale questuante: d’estate lo tormentavo perché avevo le pagine vuote, d’inverno lo facevo aspettare perché le avevo troppo piene, e a ogni autunno invocavo la sua onniscienza perché si tenesse pronto a scrivere su candidati al Nobel provenienti da ogni geografia. Non vinse mai nessuno di quelli che gli prospettai, così Remo tirava il fiato, ma solo per poco: a ogni ritorno dai suoi viaggi trova un bel paccone di bozze a aspettarlo, e poiché non provavo nemmeno a star dietro al suo turbinoso calendario, anche quando era in viaggio non lo risparmiavo. E credendolo a Pisa mentre invece era a Rio de Janeiro, a Bologna mentre era a Sidney, a Stanford mentre era a Zurigo mi appellavo alle sue virtù diplomatiche perché mi sollevasse da qualche imbarazzo e portasse il tributo di una recensione a questo o quello dei nostri numi tutelari i cui appetiti narcisistici non sapevo come meglio placare. Dovunque si trovasse, nel giro di pochi minuti Remo rispondeva: non ricordo abbia mai detto di no, credo invece di avere letto, a volte tra le righe, qualche scrollata di spalle, qualche tentativo di ribellione alla mia subdola alleanza con il suo vigoroso super Io. Sarà perciò che ho sognato Remo intento a ristrutturare quella Torre saracena che improvvidamente abbandonò: voci nel sogno mi hanno sussurrato che stava approntando un nuovo Materiale e si apprestava a attingere a un rinnovato Immaginario. Non mi resta che sperare che torni presto a suggerirmi cosa fare: i miei sogni lo aspettano.